di Nereo Tiso
Alcune note introduttive
Parlare di post modernità vuol dire fare i conti con la costante presenza del rischio, del movimento, della libertà; un continuo trapasso da un sistema di valori ad un altro. E’ il cosiddetto pensiero debole, della relativizzazione di valori e regole; diciamo che si è passati da un ordine costituito nel quale le regole erano legittimate da una accettazione generale, ad un ordine in cui, invece, le regole vengono subite. Tutto viene catalizzato dalla libertà, che sembra l’unica misura della felicità; tutto sembra gravido di un irrefrenabile ottimismo nel continuo contendersi un tempo favorevole per una vita eccezionale ma piena di rischi.
Di fronte a questi cambiamenti c’è l’uomo, con la sua coscienza e la sua responsabilità la quale non può esimersi di osservare la libertà, talvolta con rispetto, altre volte con sospetto, ma mai con devozione assoluta e tanto meno con sottomissione. In questo vorticoso avvicendarsi di creatività e di frustrazione, di energie liberate e di aggressività, di sicurezza e di insicurezza, la responsabilità è un elemento fondante la libertà.
E’ evidente che qualche sbavatura si è creata e si sta creando. In questo sistema dove l’individuo è posto al centro e l’uomo in disparte, la povertà mal si coniuga con la libertà, l’economia liberale funziona in condizioni privilegiate; il profitto esasperato non stringe la mano volentieri alla solidarietà, i sistemi democratici sembrano soffrire, il mondo del lavoro si sta chiedendo quale sarà il suo futuro. Se l’imperativo categorico è consumare, cioè smaltire beni per produrne altri, probabilmente si arriverà a consumare anche “beni” che non si possono produrre o riprodurre: le relazioni tra gli uomini, la felicità, la solidarietà, l’amicizia, la famiglia, la natura, la giustizia e l’ingiustizia, la fede e la vita stessa.
Democrazia: tra fondamenti e contraddizioni
La definizione di democrazia ha attraversato la storia, più o meno recente, con prove dure dalle quali sono emerse delle accezioni sempre più convincenti di questo termine o, per capire meglio, di questo sistema di governo che ora ci appartiene e del quale non vogliamo fare a meno soprattutto in un momento di incertezza nel quale i fondamenti acquisiti e consolidati, sembrano essere fragili.
In una realtà complessa e in continua trasformazione, comunque, l’emergere di quei valori che aiutano alla convivenza civile, alla pace, e alla democrazia stessa, hanno un risveglio che si scosta decisamente dalle inclinazioni che sembrano annacquarli. Certo, recuperare il senso della democrazia è fondamentale per evitare inutili confusioni. Essa non è un dato di fatto, ma va conquistata, rinnovata, richiamata nei fondamenti attraverso la partecipazione dei cittadini, del popolo sovrano. E la partecipazione, tra l’altro, non è un elemento aggiuntivo della democrazia, ma ne è un fondamento costitutivo. Dobbiamo dire, però, che, purtroppo, per molti motivi, sembra che la partecipazione politica sia diminuita e con essa anche l’interesse per la stessa. Forse i cittadini pensano che i loro bisogni vengano soddisfatti grazie alla libertà di mercato. Diciamo che si crea la democrazia scarsa che pian piano viene svuotata dal suo senso ultimo che è quello di operare per la soddisfazione dei bisogni degli uomini e garantire la dignità della persona sovrastata dall’imperativo economico.
Volendo precisare in maniera più chiara che cosa sia la democrazia, si può aggiungere che essa è, come dice A.Sen, il “governo attraverso la discussione”, cioè quel dialogo costante tra le istituzioni e i cittadini e tra chi governa e chi sta all’opposizione, fatto di mediazioni e che solo è in grado di arrivare a sintesi costruttive. Immaginiamo che tutto ciò vada ben oltre il mero risultato dell’urna elettorale: esso non può essere la legittimazione di un potere, bensì di una responsabilità. Evitando la discussione come principio necessario per deliberare leggi il più possibile adeguate alla realizzazione del bene comune e alla buona convivenza tra i cittadini, si scadrebbe nella difesa delle posizioni elettoralmente e democraticamente acquisite senza realizzare, però, una democrazia nel senso completo del termine.
A tal proposito, mi sembra opportuno citare Amartya Sen, premio nobel per l’economia nel 1998, che con chiarezza ci fa capire l’importanza della democrazia, il valore e le esigenze:
Che cos’è esattamente la democrazia? Innanzitutto occorre evitare l’identificazione fra democrazia e governo della maggioranza. La democrazia ha esigenze complesse, fra cui, naturalmente, lo svolgimento di elezioni e l’accettazione del loro risultato, ma richiedendo inoltre la protezione dei diritti e delle libertà, il rispetto della legalità, nonché la garanzia di libere discussioni e di una circolazione senza censura delle notizie.(…) La democrazia è un sistema che esige impegno costante, e non un semplice meccanismo (come il governo della maggioranza), indipendente e isolato da tutto il resto. (A.Sen, La democrazia degli altri, ed. Mondatori, 2004, pp. 61-62)
Per aggiungere ancora una ulteriore precisazione, che aiuta a capire come la discussione, comunque, non può essere fine a se stessa, soprattutto per il cristiano che fa parte della comunità politica ed ha delle responsabilità in essa, ci affidiamo a quanto scrive Mario Toso: “La comunità politica non esiste solo perché gli uomini dialogano ed argomentano, ma perché la loro discussione o il loro contratto avvengono entro l’alveo di una comune ricerca del vero e del bene, la quale dipende dalla natura umana creata e redenta, che si attua in termini di libertà e responsabilità”. (M.Toso, La Società, n. 1/2005, p. 33)
La democrazia, come abbiamo visto, non è un assoluto, anzi. E’ qualcosa di estremamente relativo, in continua formazione e trasformazione, non tanto nei fondamenti, quanto nel suo operare nei tempi, nei modi e nei luoghi più opportuni che via via incontra sul suo cammino. In un certo senso deve gestire l’onere e l’onore di governare, di promuovere idee e ideali senza per questo debbano diventare atti di fede. La democrazia è un esercizio faticoso e talvolta oscuro; mai però derivante da un carisma perché il rischio è di cadere nell’assolutismo. Possiamo anche dire che il relativismo in democrazia, non è una sorta di anarchia, bensì un incontro di valori che rispondono a una pluralità di opinioni e di esperienze. Il popolo ha il potere di decidere chi governa e chi sta all’opposizione e quindi ogni cittadino può, liberamente, sottolineo liberamente, esprimere la sua preferenza. Ha altresì il potere di cambiare la sua scelta con mezzi pacifici.
Purtroppo la democrazia, oggi, come si è già accennato, sta vivendo, anche nei grandi paesi storicamente guidati da governi democratici, una fase di transizione che Colin Crouch chiama “post democratica”. Le lobby economiche, con le loro campagne, dominano il potere democratico e in modo non infrequente, influenzano le scelte politiche dei cittadini. Le priorità egualitarie, caratteristiche di un sistema democratico che dovrebbe mirare alla redistribuzione della ricchezza, cominciano a segnare il passo. E coloro che hanno la responsabilità di governo sembra abbiano scarsa speranza nel limitare gli interessi dei vari potenti che via via si succedono soprattutto in un modello di società che è decisamente liberale, ma che non coincide con una forte democrazia.
Chi ne risente maggiormente di questa fase di transizione a causa di una situazione internazionale di difficoltà democratica, sono i paesi in via di sviluppo. Prima il pane e poi la democrazia potrebbe essere un imperativo per questi paesi. Però noi tutti sappiamo che tamponare le falle di sistemi economici poveri non aiuta a risolvere i problemi né tanto meno a instaurare la democrazia. Chi detiene dispoticamente il potere ha più interesse ad offrire un tozzo di pane piuttosto che la libertà che è sostanza per lo sviluppo. Spesso tutto ciò accade sotto il colpevole silenzio dei paesi democratici. Di fronte a ciò, le prospettive di forti movimenti migratori dal sud al nord del mondo sono chiare e, nel mondo globalizzato, tutto ciò è inarrestabile e apre a nuovi scenari di democrazia, di politiche economiche e del lavoro nei paesi di immigrazione.
Nei paesi occidentali si è dovuto sopportare i dolori di un travaglio molto lungo e complesso fatto di sofferenze e tragedie per arrivare a rivivere la politica, nel senso più alto del termine, quale ragione fondamentale della democrazia. Grandi uomini si sono caricati sulle spalle la responsabilità di far transitare il nostro paese, ma anche gli altri paesi europei, che erano stati condotti all’odio reciproco, a quel sistema che, finora, nonostante tutto, è l’unico ancora in grado, tra quelli conosciuti, di far progredire politicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente i paesi che lo adottano. Oggi però, nonostante siano state tolte di mezzo le ideologie, altri poteri subdoli e molto forti fanno concorrenza alla democrazia cercando di ridurla a semplice controllore o poliziotto di stato.
Certo, non possiamo solo tessere i giusti elogi alla democrazia, ma dobbiamo anche sottolineare che gli scenari che ci si presentano davanti sono nuovi e vanno affrontati con determinazione. E’ necessario, quindi, assicurasi il sistema democratico, ma rendere anche effettivamente operativa nella sua vera dimensione e grandezza la democrazia soprattutto in un contesto sociale e mondiale in continuo cambiamento. A margine però, purtroppo, si nascondono sorprese che si riflettono inesorabilmente sul vivere quotidiano prestando il fianco a interessi economici che di democratico hanno ben poco.
Quindi non è l’idea di democrazia che va messa in discussione, bensì un modello che segna il passo nel conseguire, di fronte e troppe ingerenze esterne, la piena realizzazione. Possiamo dire che si è costruito nel recente passato una democrazia per pochi, per un’élite di persone che appiattiscono la politica al mercato. Il semplice cittadino passa in subordine, tanto che le difficoltà economiche e sociali che le famiglie stanno vivendo anche in Italia vengono relegate più o meno a notizie di cronaca. E’ bene ricordare, comunque, che la politica, come dice ancora Mario Toso, non è una società d’affari.
Emergono continuamente elementi nuovi sia nazionali che internazionali che stimolano ad una maggiore riflessione su una ridefinizione della democrazia, cercando di capirla nelle sue varie accezioni e nelle sue modificazioni, ma anche nei suoi fondamenti. Per recuperare senso alla stessa cresce l’interesse per la fondamentale importanza della responsabilità degli stati, dell’economia, dei cittadini e delle istituzioni in genere soggetti trainati della democrazia. Una svolta? Un momento di debolezza? Una crisi profonda? Sono domande che non pretendono né prevedono risposte immediate, ma un inizio di percorso lungimirante, che richiede uno sforzo da parte di tutti coloro che fanno parte di questo sistema e che lo hanno a cuore.
Le incertezze fra economia e lavoro
La società postmoderna ha dovuto adeguarsi ad essere più consapevole dei rischi, dei dubbi, delle incertezze che i nuovi modelli sociali, economici e politici propongono. La mancanza di soluzioni uniche a infiniti problemi mettono l’individuo di fronte a responsabilità che prima non aveva. Le traiettorie contorte, le ambivalenze, le sofferenze morali ed economiche che continuamente la società contemporanea deve affrontare non hanno più ricette uniche. O meglio! L’uomo si trova da solo ad affrontare problemi dei quali molto spesso non è in grado nemmeno di capire; è un uomo che non può che fidarsi di se stesso diffidando del prossimo. Egli deve migliorarsi in un gioco continuo fatto di tensioni e ansie. E’ la competizione che si snoda in tutti gli ambiti dell’esistenza e in particolare dell’economia che avvolge come una ragnatela dalla quale sembra sempre più difficile districarsi. La competizione come giocare insieme diventa concorrenza, una gara continua e talvolta spietata. Tutto ciò si ripercuote in maniera drammatica sugli anelli deboli della società non in grado di rincorrere questi cambiamenti rimanendo inesorabilmente ai margini, con pochi sogni e nessuna speranza. E’ una società chiusa, fatta di diffidenza necessarie per proteggere il terreno conquistato da eventuali ede ipotetici invasori.
Probabilmente la saggezza dell’uomo, come scrive Bauman, nata dalla consapevolezza che egli ha della propria responsabilità nell’epoca postmoderna, riuscirà a ricucire gli enormi strappi che si sono creati nelle società occidentali o in quelle dei paesi meno sviluppati o sottosviluppati? Certamente è una sfida enorme, che si dovrà affrontare utilizzando gli strumenti più opportuni che emergeranno dalla ricerca dei valori necessari a non navigare a vista nell’oceano dell’incertezza. Incertezza che si riflette in tutte le pieghe della società: dalla famiglia, all’ambiente, al welfare, all’economia, al lavoro e che gravita in un individualismo talmente esasperato da far crescere, paradossalmente, la voglia di sacro, di trascendente, insomma di religione, che sembrava assopita nella confusione consumista. Una religione però, individualista, che tende a soddisfare un desiderio personale di sicurezza, di tranquillità piuttosto che aprirsi al Dio trascendente. L’uomo si crea una religione per gestire, ancora una volta autonomamente, le frustrazioni di un vuoto creatosi attorno a sé. Questa, come scrive ancora Bauman, gli promette una navigazione sicura tra gli scogli della solitudine e dell’impegno, tra il flagello dell’esclusione e la morsa d’acciaio di vincoli troppo stretti, tra un irreparabile distacco e un irrevocabile coinvolgimento (Z.Bauman, Amore Liquido, Laterza 2004)
In questo movimento vorticoso, la fa da padrone il sistema della rincorsa economica che si intromette prepotentemente in tutti i rivoli più nascosti della nostra esistenza. L’economia, infatti, è stato proprio uno dei temi trattati durante la settimana sociale dei cattolici a Bologna e anche durante i seminari preparatori. E’ un tema caro alla Dottrina Sociale della Chiesa sul quale più volte si è espressa cercando di offrire degli strumenti di approfondimento attraverso una lettura soprattutto valoriale toccando i vari elementi che lo compongono: mercato, impresa, profitto, bilanci, lavoro, diritti, uguaglianza, equità, ecc. .
E’ noto come il sistema del libero mercato abbia ormai assunto una tale forza da non conoscere rivali, anche perché l’unico rivale che aveva tentato di sostituirlo è miseramente fallito. Mi riferisco ovviamente al sistema collettivista. Se lasciassimo tutto così com’è , secondo quanto stabilito esclusivamente dalla libera concorrenza, non avrebbe neppure senso parlarne. Di fatto, però, gli scenari che si aprono di fronte a noi sono incredibilmente diversi tanto che i loro movimenti non riusciamo a percepirli.
Come sappiamo in questo modello economico che non conosce rivali, il profitto è l’obiettivo trainante, anzi l’obiettivo principale. Si può rilevare comunque che anche tra gli economisti il modo di pensare corra su binari completamente diversi. Da una parte un capitalismo che lascia al mercato senza vincoli la possibilità di autoregolarsi, premiando i migliori e lasciando inesorabilmente al palo gli altri. Una sorta di evoluzionismo economico-sociale. Dall’altre parte si dimostra (Sen, Stigliz, entrambi premi Nobel) la possibilità di un capitalismo meno autoritario, temperato da regole e solidarietà. Quest’ultimo, secondo i suoi estimatori risulta, nel medio periodo, molto più conveniente ed efficace. E per recuperare la riflessione molto stimolante di un pensatore e politico del nostro tempo, Jacques Delors, un’economia svincolata dal solo conseguimento di un interesse personale ma anche sostenuta da valori, deve avere queste tre caratteristiche: La competitività che stimola, la cooperazione che consolida, la solidarietà che unisce.
Il problema sorge nel momento in cui si parla di eguaglianza delle opportunità da offrire a coloro che sono ai margini del sistema, che non hanno la possibilità di salire sul treno della concorrenza e della competizione; che non possono godere di quegli strumenti fondamentali di crescita e sviluppo. Certo, l’economia deve obbligatoriamente creare ricchezza, in termini non soltanto quantitativi, ma anche qualitativi: tutto ciò è moralmente corretto se finalizzato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società in cui vive e opera (Compendio DSC n. 334).E’ purtroppo evidente, comunque, che le opportunità che possono essere offerte dal sistema ad economia di mercato diventano marginali dal momento in cui in molti non hanno la possibilità di accedervi.
Il lavoro quale strumento di democrazia
Oggi si confonde spesso, come diceva Hanna Arendt, la vita activa, cioè la vita dell’uomo come crescita completa, con il lavoro. L’uomo è colui che lavora, è in relazione, vive una quotidianità e non è innanzitutto lavoratore.
Tutti conosciamo l’arti 1 della nostra Costituzione: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Dal dopoguerra ad oggi i passi sono stati molti e diversi per quanto riguarda lo sviluppo di questo fondamento costituzionale. Fino a non moltissimi anni fa la vita era scandita da suoni e rintocchi: per chi lavorava in fabbrica dal suono della sirena, mentre per chi lavorava nei campi da quello delle campane. La vita era racchiusa in ritmi costanti che accompagnavano per tutta l’esistenza. Tanto che si può dire che il matrimonio era anche col posto di lavoro. A vita. E non infrequentemente questo si tramandava di padre in figlio per molte generazioni.
L’economia aveva ritmi diversi e il movimento delle merci non aveva la velocità che ora, non solo ha, ma necessariamente deve avere. All’economia, cadenzata da tempi ben definiti, si affiancava quel movimento di uomini che cercavano di migliorare l’esistenza propria e della propria famiglia emigrando verso quei paesi che offrivano maggiori opportunità. Oggi il movimento ha i medesimi obiettivi, ma va verso un’altra direzione: viene verso i paesi degli ex emigranti trovando difficoltà, suscitando non pochi sospetti, ma anche accoglienza e integrazione. Esiste anche un’altra forma di migrazione, sempre più frequente: quella tra un posto di lavoro e un altro, tra una professione e un’altra.
Il cambiamento è iniziato con la forza propulsiva della globalizzazione che ha creato enormi opportunità ma anche incertezza, precarietà: è subentrata la paura. Di fatto tutto diventa instabile anche perché non ha il tempo di piantare radici. Anzi, piantare radici è, nel contesto socio-economico attuale, proprio controproducente. Il lavoro è entrato in un mercato: c’è chi offre lavoro e chi risponde con la propria disponibilità e professionalità. Una serie infinita di variabili fanno sì che spesso il punto d’incontro tra chi offre lavoro e chi presta lavoro non sempre è lo stesso. Entrambi hanno la continua necessità di rimodellarsi sulla base delle trasformazioni che questo nuovo modello propone. Il lavoro cambia e con esso il posto di lavoro che non è più da ricercare sotto casa. Il sistema globalizzato ha bisogno di persone disponibili a spostarsi, a cambiare e ricambiare completamente modo di vivere, amicizie, abitazioni per essere praticamente sempre in viaggio nell’economia globale.
Il fatto è però, che il lavoro offerto non corrisponde più ad un lavoro che rimarrà tale nel tempo e il posto di lavoro che si andrà ad occupare sarà anch’esso in movimento perché lo stesso posto di lavoro potrà essere occupato da più persone in tempi diversi e con la medesima professionalità. Di fatto il lavoro è un lavoro flessibile e chi offre la sua prestazione può essere riciclato fino alla definitiva usura. Colui che si pone sul mercato del lavoro, soprattutto se giovane, si sente come una piccola pianta in crescita, come un pellegrino che si volge verso la meta, ma continua a camminare senza sapere, però, se arriverà al posto di ristoro successivo.
Il termine flessibile si riferisce ai rami dell’albero che, piegati dal vento, poi, data la loro robustezza, ritornano al loro posto. Essi resistono nonostante i continui e pesanti scossoni. Idealmente la flessibilità è sapersi adattare alle varie circostanze senza farsi spezzare. Quindi è necessario essere straordinariamente duttili e adattabili; chiudere gli occhi di fronte agli eventuali sogni che i genitori avevano per i figli cercando di affrontare il sistema senza farsi stritolare. La domanda da porsi, comunque, è sempre quella di Pico della Mirandola: Come dovrei forgiare la mia vita?
In questa continua corsa ad ostacoli bisogna sradicarsi e sgravarsi di inutili zavorre troppo rigide che farebbero inciampare durante il cammino creando quelle fratture che potrebbero spostarti fuori dallo stesso mercato del lavoro. Così facendo ci si allontanerebbe dalla via cosiddetta maestra della flessibilità, unico strumento attuale per tentare una possibile lettura del proprio futuro senza pensare ad una meta costituita dalla tranquillità lavorativa e sociale.
Tutto ciò crea un impatto sociale ed economico che si ripercuote nelle singole persone e sulla loro qualità di vita. E’ la necessità di assumersi, più che delle responsabilità, dei rischi, che pesano sulla quotidianità, soprattutto delle giovani generazioni. I giovani, infatti, vengono considerati più malleabili nell’assunzione di rischi e di immediata sottomissione, e sono, quasi naturalmente, i più propensi al cambiamento e alle modifiche in “corso d’opera”. Ma com’è possibile progettare a lungo termine quando l’economia ruota attorno al breve periodo se non dell’immediato?
E’ importante capire da dove derivi, soprattutto in Italia, la questione della flessibilità nel lavoro. Ha visto la luce verso gli anni ’80 quando le ragioni della politica si mescolavano a quelle economiche e il modello americano cominciava ad approdare nel nostro paese. Ci si pone il problema della protezione del posto di lavoro e dei lavoratori, che finora è stata uno dei capisaldi del nostro sistema economico e allo stesso tempo di proporre l’introduzione di un modello meno protetto e quindi, necessariamente più flessibile, per ridurre la cronica disoccupazione sempre più elevata. Nascono, tra gli anni ’80 e ’90, quei contratti che modificheranno radicalmente il concetto precedente di contratto e vengono chiamati: Formazione lavoro, Interinale, CO.CO.CO. (oggi Contratto a Progetto), apprendistato; nasce anche il popolo della partita IVA. Nascono anche nuove modalità di lavoro: telelavoro, part time di fine settimana, ecc.. Molto più recentemente, con la famosa legge Biagi, vengono immessi nel mercato nuovi formulari e nuove forme contrattuali: Nuovo Apprendistato, Contratti di formazione e tirocinio, Lavoro a tempo parziale, Lavoro a chiamata, Lavoro temporaneo, Lavoro occasionale, Lavoro accessorio e a prestazioni ripartite (job sharing). Certo un numero notevole di possibilità e di opportunità che il mercato del lavoro può offrire e che velocemente molte aziende hanno messo in pratica per necessità e convenienza, creando una flessibilità e una conseguente precarietà che può stordire ma che, talvolta, può essere considerata anche uno strumento positivo. Pensiamo per esempio alla possibilità di coniugare famiglia e lavoro, di essere maggiormente liberi senza nessun vincolo, di partecipare a molteplici progetti attraverso varie esperienze lavorative e di vita.
Il problema è capire quanti confini sarà necessario superare per riuscire a garantirsi una minore insicurezza lavorativa, retributiva, sociale e familiare. La precarietà, frutto maturo della flessibilità, porta allo spreco, oltre che di professionalità acquisite nel tempo, anche delle possibilità di realizzare se stessi in ambito sociale, affettivo e familiare. Si produrranno, in modo sempre più evidente, delle disuguaglianza tra chi gode di un posto di lavoro a tempo indeterminato e chi sarà cronicamente un lavoratore atipico. Orientarsi in un mercato sempre meno chiaro e risucchiato in un vortice di insicurezza, è quanto mai complicato, anche perché, tra l’altro, non sempre la disponibilità di posti di lavoro corrisponde alla professionalità di domanda-lavoro. E’ a rischio, nonostante l’esaltazione della flessibilità che riduce la disoccupazione (anche i disoccupati?) anche la costruzione della propria personalità, soprattutto tra i giovani. La precarietà oggettiva crea frustrazione e, non infrequentemente, poca stima di sé.
Come già prima si accennava, si possono trovare anche degli aspetti positivi nella flessibilità, soprattutto tra i giovani: pensiamo, per esempio alla possibilità di accesso al lavoro in maniera più dinamica e graduale; pensiamo a chi ama la libertà nel lavoro senza essere troppo vincolato e quindi potersi spostare autonomamente adattandosi in modo meno rigido alle varie situazione che via via si presentano. Certo è che non si può investire nel futuro perché la flessibilità si consolida e l’attesa per una stabilità nel futuro delle grandi scelte risulta complessa e sempre più lontana nel tempo.
Il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo, troviamo scritto nella Laborem Exercens. Ma se il lavoro è veramente il bene dell’uomo, cosa può offrire la precarietà flessibile? E’ evidente che gli scossoni ricevuti dalla perdita di orientamento mettono in crisi anche il riconoscimento del bene dell’uomo. Diciamo che oggi, nel sistema flessibile, l’uomo è un accessorio che viene utilizzato alla bisogna anche se indispensabile.
La flessibilità è un dato, una necessità più che una scelta alla quale, soprattutto i giovani, come dicevamo, ma non solo, purtroppo, non possono sottrarsi. Ciò che prima era esperienza consolidata ora è sempre qualcosa di temporaneo, senza radice. L’esperienza è un azzardo, come un gioco nel quale ci si muove velocemente e che non ammette tempo per pensare; bisogna correre quando si viene chiamati pena rimanere inesorabilmente tagliati fuori. Richard Sennet scrive che La preoccupazione è l’ansia per quello che può avvenire, e si produce in un clima in cui viene esaltato il rischio costante e in cui sembra che le esperienze passate non possano più servire da guida per il presente (R.Sennet, L’uomo Flessibile, ed. Feltrinelli). Quest’ansia continua, può svuotare e far arrivare il lavoratore precario a capire che anche l’assunzione di responsabilità nei confronti di se stesso e della realtà in cui vive è cambiata: è diventata anch’essa più flessibile.
Quale futuro si prospetta per i giovani che entrano ora nel mondo del lavoro? Quale futuro per chi, di media età, è uscito dal mondo del lavoro nel senso che è troppo “anziano” per essere riassorbito senza un’alta qualifica professionale? Per questi ci sono solo pregiudizi nel mercato del lavoro in quanto troppo refrattari ai rischi e quindi si può arrivare anche a negare la loro esperienza. Quale futuro per le donne nel loro dividersi tra casa e occupazione esterna? Che ne sarà degli immigrati? Probabilmente oltre ad essere flessibile e dopo aver delocalizzato il lavoro ci si dovrà delocalizzare come lavoratori se spostandosi velocemente per recuperare contratti anche se poco appetibili professionalmente ed economicamente e quindi riuscire a soddisfare le necessità dalle quali, nonostante le incertezze, non si può prescindere e che concorrono a realizzare la propria dignità umana: una possibile famiglia, una probabile abitazione, forse una vecchiaia meno incerta. Si dovrà diventare dei turisti del posto di lavoro. Ma per il momento anche tutto ciò rimane estremamente incerto.
Una regolamentazione della flessibilità è auspicabile sia dal punto di vista organizzativo che del riconoscimento delle professionalità. Esse sono importanti per l’azienda come lo sono per il lavoratore. Importante anche una continua riqualificazione senza disperdere il patrimonio acquisito dovendo modificarsi per poter sopravvivere. Non ultimo, per chi non è più in grado di rientrare nel mercato del lavoro, vuoi per età, vuoi per scarsa professionalità, vuoi per congetture di tipo economico nazionale e internazionale, la costituzione di nuovi ammortizzatori sociali potrebbe essere un sistema di minor insicurezza.
E’ opportuno ricordare che, in molte democrazie e in particolare quella italiana, la visione lungimirante dei progetti di politica economica e, ovviamente, di politiche per il lavoro e l’occupazione, sono distratti da progetti a medio termine. Questo perché esiste, più che una predisposizione di norme utili allo sviluppo, la necessità di operare per le prossime elezioni. Le generazioni future, pertanto, possono rimanere impantanate nelle sabbie mobili di una politica di sviluppo miope se non cieca. Gli interessi lontani sono nascosti dalla speranza di vincere le elezioni. Pertanto il sostegno alle realtà deboli del sistema diventa sempre più difficoltoso e forse sempre meno remunerativo dal punto di vista elettorale in una prospettiva di economia elitaria e non diffusa sostenuta da una politica praticamente elettoralistica. (S.Zamagni, 44^ Settimana Sociale dei Cattolici, Bologna 2004).
Conclusione
La domanda che sembra ovvia a conclusione di queste riflessione è: che fine farà il lavoratore nel nostro sistema democratico? O forse: si potrà parlare ancora di garanzie all’uomo flessibile? Il compendio della Dottrina sociale della Chiesa al n. 314 parla di un universo di lavori variegato, fluido, ricco di promesse ma anche di interrogativi preoccupanti, specie di fronte alla crescente insicurezza circa le prospettive occupazionali. La competizione, le innovazioni tecnologiche e la gestione dei flussi finanziari vanno armonizzate con la difesa del lavoratore e dei suoi diritti. Ma esisteranno ancora in futuro i lavoratori dipendenti? Sarà l’uomo misura e regola del lavoro o sarà assorbito dal lavoro cessando di essere uomo? Le prospettive sono aperte, molte volte inquietanti. Si naviga a vista nel mare mosso. Un’opera di ricostruzione del sistema lavoro in prospettiva futura è necessaria soprattutto in un sistema democratico che ha bisogno, anch’esso, di ritocchi profondi e non solo di un maquillage passeggero.
BIBLIOGRAFIA
Z.Bauman, La società dell’incertezza, ed. Il Mulino, Bologna 1999.
Z.Bauman, L’amore liquido, ed. Laterza, Roma-Bari 2004.
J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, ed. Feltrinelli, Milano 2004.
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Ed. Vaticana 2004
A.Sen, La democrazia degli altri, ed. Mondadori, Milano 2004
R.Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, ed. Feltrinelli, Milano 2000.
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Parlare di post modernità vuol dire fare i conti con la costante presenza del rischio, del movimento, della libertà; un continuo trapasso da un sistema di valori ad un altro. E’ il cosiddetto pensiero debole, della relativizzazione di valori e regole; diciamo che si è passati da un ordine costituito nel quale le regole erano legittimate da una accettazione generale, ad un ordine in cui, invece, le regole vengono subite. Tutto viene catalizzato dalla libertà, che sembra l’unica misura della felicità; tutto sembra gravido di un irrefrenabile ottimismo nel continuo contendersi un tempo favorevole per una vita eccezionale ma piena di rischi.
Di fronte a questi cambiamenti c’è l’uomo, con la sua coscienza e la sua responsabilità la quale non può esimersi di osservare la libertà, talvolta con rispetto, altre volte con sospetto, ma mai con devozione assoluta e tanto meno con sottomissione. In questo vorticoso avvicendarsi di creatività e di frustrazione, di energie liberate e di aggressività, di sicurezza e di insicurezza, la responsabilità è un elemento fondante la libertà.
E’ evidente che qualche sbavatura si è creata e si sta creando. In questo sistema dove l’individuo è posto al centro e l’uomo in disparte, la povertà mal si coniuga con la libertà, l’economia liberale funziona in condizioni privilegiate; il profitto esasperato non stringe la mano volentieri alla solidarietà, i sistemi democratici sembrano soffrire, il mondo del lavoro si sta chiedendo quale sarà il suo futuro. Se l’imperativo categorico è consumare, cioè smaltire beni per produrne altri, probabilmente si arriverà a consumare anche “beni” che non si possono produrre o riprodurre: le relazioni tra gli uomini, la felicità, la solidarietà, l’amicizia, la famiglia, la natura, la giustizia e l’ingiustizia, la fede e la vita stessa.
Democrazia: tra fondamenti e contraddizioni
La definizione di democrazia ha attraversato la storia, più o meno recente, con prove dure dalle quali sono emerse delle accezioni sempre più convincenti di questo termine o, per capire meglio, di questo sistema di governo che ora ci appartiene e del quale non vogliamo fare a meno soprattutto in un momento di incertezza nel quale i fondamenti acquisiti e consolidati, sembrano essere fragili.
In una realtà complessa e in continua trasformazione, comunque, l’emergere di quei valori che aiutano alla convivenza civile, alla pace, e alla democrazia stessa, hanno un risveglio che si scosta decisamente dalle inclinazioni che sembrano annacquarli. Certo, recuperare il senso della democrazia è fondamentale per evitare inutili confusioni. Essa non è un dato di fatto, ma va conquistata, rinnovata, richiamata nei fondamenti attraverso la partecipazione dei cittadini, del popolo sovrano. E la partecipazione, tra l’altro, non è un elemento aggiuntivo della democrazia, ma ne è un fondamento costitutivo. Dobbiamo dire, però, che, purtroppo, per molti motivi, sembra che la partecipazione politica sia diminuita e con essa anche l’interesse per la stessa. Forse i cittadini pensano che i loro bisogni vengano soddisfatti grazie alla libertà di mercato. Diciamo che si crea la democrazia scarsa che pian piano viene svuotata dal suo senso ultimo che è quello di operare per la soddisfazione dei bisogni degli uomini e garantire la dignità della persona sovrastata dall’imperativo economico.
Volendo precisare in maniera più chiara che cosa sia la democrazia, si può aggiungere che essa è, come dice A.Sen, il “governo attraverso la discussione”, cioè quel dialogo costante tra le istituzioni e i cittadini e tra chi governa e chi sta all’opposizione, fatto di mediazioni e che solo è in grado di arrivare a sintesi costruttive. Immaginiamo che tutto ciò vada ben oltre il mero risultato dell’urna elettorale: esso non può essere la legittimazione di un potere, bensì di una responsabilità. Evitando la discussione come principio necessario per deliberare leggi il più possibile adeguate alla realizzazione del bene comune e alla buona convivenza tra i cittadini, si scadrebbe nella difesa delle posizioni elettoralmente e democraticamente acquisite senza realizzare, però, una democrazia nel senso completo del termine.
A tal proposito, mi sembra opportuno citare Amartya Sen, premio nobel per l’economia nel 1998, che con chiarezza ci fa capire l’importanza della democrazia, il valore e le esigenze:
Che cos’è esattamente la democrazia? Innanzitutto occorre evitare l’identificazione fra democrazia e governo della maggioranza. La democrazia ha esigenze complesse, fra cui, naturalmente, lo svolgimento di elezioni e l’accettazione del loro risultato, ma richiedendo inoltre la protezione dei diritti e delle libertà, il rispetto della legalità, nonché la garanzia di libere discussioni e di una circolazione senza censura delle notizie.(…) La democrazia è un sistema che esige impegno costante, e non un semplice meccanismo (come il governo della maggioranza), indipendente e isolato da tutto il resto. (A.Sen, La democrazia degli altri, ed. Mondatori, 2004, pp. 61-62)
Per aggiungere ancora una ulteriore precisazione, che aiuta a capire come la discussione, comunque, non può essere fine a se stessa, soprattutto per il cristiano che fa parte della comunità politica ed ha delle responsabilità in essa, ci affidiamo a quanto scrive Mario Toso: “La comunità politica non esiste solo perché gli uomini dialogano ed argomentano, ma perché la loro discussione o il loro contratto avvengono entro l’alveo di una comune ricerca del vero e del bene, la quale dipende dalla natura umana creata e redenta, che si attua in termini di libertà e responsabilità”. (M.Toso, La Società, n. 1/2005, p. 33)
La democrazia, come abbiamo visto, non è un assoluto, anzi. E’ qualcosa di estremamente relativo, in continua formazione e trasformazione, non tanto nei fondamenti, quanto nel suo operare nei tempi, nei modi e nei luoghi più opportuni che via via incontra sul suo cammino. In un certo senso deve gestire l’onere e l’onore di governare, di promuovere idee e ideali senza per questo debbano diventare atti di fede. La democrazia è un esercizio faticoso e talvolta oscuro; mai però derivante da un carisma perché il rischio è di cadere nell’assolutismo. Possiamo anche dire che il relativismo in democrazia, non è una sorta di anarchia, bensì un incontro di valori che rispondono a una pluralità di opinioni e di esperienze. Il popolo ha il potere di decidere chi governa e chi sta all’opposizione e quindi ogni cittadino può, liberamente, sottolineo liberamente, esprimere la sua preferenza. Ha altresì il potere di cambiare la sua scelta con mezzi pacifici.
Purtroppo la democrazia, oggi, come si è già accennato, sta vivendo, anche nei grandi paesi storicamente guidati da governi democratici, una fase di transizione che Colin Crouch chiama “post democratica”. Le lobby economiche, con le loro campagne, dominano il potere democratico e in modo non infrequente, influenzano le scelte politiche dei cittadini. Le priorità egualitarie, caratteristiche di un sistema democratico che dovrebbe mirare alla redistribuzione della ricchezza, cominciano a segnare il passo. E coloro che hanno la responsabilità di governo sembra abbiano scarsa speranza nel limitare gli interessi dei vari potenti che via via si succedono soprattutto in un modello di società che è decisamente liberale, ma che non coincide con una forte democrazia.
Chi ne risente maggiormente di questa fase di transizione a causa di una situazione internazionale di difficoltà democratica, sono i paesi in via di sviluppo. Prima il pane e poi la democrazia potrebbe essere un imperativo per questi paesi. Però noi tutti sappiamo che tamponare le falle di sistemi economici poveri non aiuta a risolvere i problemi né tanto meno a instaurare la democrazia. Chi detiene dispoticamente il potere ha più interesse ad offrire un tozzo di pane piuttosto che la libertà che è sostanza per lo sviluppo. Spesso tutto ciò accade sotto il colpevole silenzio dei paesi democratici. Di fronte a ciò, le prospettive di forti movimenti migratori dal sud al nord del mondo sono chiare e, nel mondo globalizzato, tutto ciò è inarrestabile e apre a nuovi scenari di democrazia, di politiche economiche e del lavoro nei paesi di immigrazione.
Nei paesi occidentali si è dovuto sopportare i dolori di un travaglio molto lungo e complesso fatto di sofferenze e tragedie per arrivare a rivivere la politica, nel senso più alto del termine, quale ragione fondamentale della democrazia. Grandi uomini si sono caricati sulle spalle la responsabilità di far transitare il nostro paese, ma anche gli altri paesi europei, che erano stati condotti all’odio reciproco, a quel sistema che, finora, nonostante tutto, è l’unico ancora in grado, tra quelli conosciuti, di far progredire politicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente i paesi che lo adottano. Oggi però, nonostante siano state tolte di mezzo le ideologie, altri poteri subdoli e molto forti fanno concorrenza alla democrazia cercando di ridurla a semplice controllore o poliziotto di stato.
Certo, non possiamo solo tessere i giusti elogi alla democrazia, ma dobbiamo anche sottolineare che gli scenari che ci si presentano davanti sono nuovi e vanno affrontati con determinazione. E’ necessario, quindi, assicurasi il sistema democratico, ma rendere anche effettivamente operativa nella sua vera dimensione e grandezza la democrazia soprattutto in un contesto sociale e mondiale in continuo cambiamento. A margine però, purtroppo, si nascondono sorprese che si riflettono inesorabilmente sul vivere quotidiano prestando il fianco a interessi economici che di democratico hanno ben poco.
Quindi non è l’idea di democrazia che va messa in discussione, bensì un modello che segna il passo nel conseguire, di fronte e troppe ingerenze esterne, la piena realizzazione. Possiamo dire che si è costruito nel recente passato una democrazia per pochi, per un’élite di persone che appiattiscono la politica al mercato. Il semplice cittadino passa in subordine, tanto che le difficoltà economiche e sociali che le famiglie stanno vivendo anche in Italia vengono relegate più o meno a notizie di cronaca. E’ bene ricordare, comunque, che la politica, come dice ancora Mario Toso, non è una società d’affari.
Emergono continuamente elementi nuovi sia nazionali che internazionali che stimolano ad una maggiore riflessione su una ridefinizione della democrazia, cercando di capirla nelle sue varie accezioni e nelle sue modificazioni, ma anche nei suoi fondamenti. Per recuperare senso alla stessa cresce l’interesse per la fondamentale importanza della responsabilità degli stati, dell’economia, dei cittadini e delle istituzioni in genere soggetti trainati della democrazia. Una svolta? Un momento di debolezza? Una crisi profonda? Sono domande che non pretendono né prevedono risposte immediate, ma un inizio di percorso lungimirante, che richiede uno sforzo da parte di tutti coloro che fanno parte di questo sistema e che lo hanno a cuore.
Le incertezze fra economia e lavoro
La società postmoderna ha dovuto adeguarsi ad essere più consapevole dei rischi, dei dubbi, delle incertezze che i nuovi modelli sociali, economici e politici propongono. La mancanza di soluzioni uniche a infiniti problemi mettono l’individuo di fronte a responsabilità che prima non aveva. Le traiettorie contorte, le ambivalenze, le sofferenze morali ed economiche che continuamente la società contemporanea deve affrontare non hanno più ricette uniche. O meglio! L’uomo si trova da solo ad affrontare problemi dei quali molto spesso non è in grado nemmeno di capire; è un uomo che non può che fidarsi di se stesso diffidando del prossimo. Egli deve migliorarsi in un gioco continuo fatto di tensioni e ansie. E’ la competizione che si snoda in tutti gli ambiti dell’esistenza e in particolare dell’economia che avvolge come una ragnatela dalla quale sembra sempre più difficile districarsi. La competizione come giocare insieme diventa concorrenza, una gara continua e talvolta spietata. Tutto ciò si ripercuote in maniera drammatica sugli anelli deboli della società non in grado di rincorrere questi cambiamenti rimanendo inesorabilmente ai margini, con pochi sogni e nessuna speranza. E’ una società chiusa, fatta di diffidenza necessarie per proteggere il terreno conquistato da eventuali ede ipotetici invasori.
Probabilmente la saggezza dell’uomo, come scrive Bauman, nata dalla consapevolezza che egli ha della propria responsabilità nell’epoca postmoderna, riuscirà a ricucire gli enormi strappi che si sono creati nelle società occidentali o in quelle dei paesi meno sviluppati o sottosviluppati? Certamente è una sfida enorme, che si dovrà affrontare utilizzando gli strumenti più opportuni che emergeranno dalla ricerca dei valori necessari a non navigare a vista nell’oceano dell’incertezza. Incertezza che si riflette in tutte le pieghe della società: dalla famiglia, all’ambiente, al welfare, all’economia, al lavoro e che gravita in un individualismo talmente esasperato da far crescere, paradossalmente, la voglia di sacro, di trascendente, insomma di religione, che sembrava assopita nella confusione consumista. Una religione però, individualista, che tende a soddisfare un desiderio personale di sicurezza, di tranquillità piuttosto che aprirsi al Dio trascendente. L’uomo si crea una religione per gestire, ancora una volta autonomamente, le frustrazioni di un vuoto creatosi attorno a sé. Questa, come scrive ancora Bauman, gli promette una navigazione sicura tra gli scogli della solitudine e dell’impegno, tra il flagello dell’esclusione e la morsa d’acciaio di vincoli troppo stretti, tra un irreparabile distacco e un irrevocabile coinvolgimento (Z.Bauman, Amore Liquido, Laterza 2004)
In questo movimento vorticoso, la fa da padrone il sistema della rincorsa economica che si intromette prepotentemente in tutti i rivoli più nascosti della nostra esistenza. L’economia, infatti, è stato proprio uno dei temi trattati durante la settimana sociale dei cattolici a Bologna e anche durante i seminari preparatori. E’ un tema caro alla Dottrina Sociale della Chiesa sul quale più volte si è espressa cercando di offrire degli strumenti di approfondimento attraverso una lettura soprattutto valoriale toccando i vari elementi che lo compongono: mercato, impresa, profitto, bilanci, lavoro, diritti, uguaglianza, equità, ecc. .
E’ noto come il sistema del libero mercato abbia ormai assunto una tale forza da non conoscere rivali, anche perché l’unico rivale che aveva tentato di sostituirlo è miseramente fallito. Mi riferisco ovviamente al sistema collettivista. Se lasciassimo tutto così com’è , secondo quanto stabilito esclusivamente dalla libera concorrenza, non avrebbe neppure senso parlarne. Di fatto, però, gli scenari che si aprono di fronte a noi sono incredibilmente diversi tanto che i loro movimenti non riusciamo a percepirli.
Come sappiamo in questo modello economico che non conosce rivali, il profitto è l’obiettivo trainante, anzi l’obiettivo principale. Si può rilevare comunque che anche tra gli economisti il modo di pensare corra su binari completamente diversi. Da una parte un capitalismo che lascia al mercato senza vincoli la possibilità di autoregolarsi, premiando i migliori e lasciando inesorabilmente al palo gli altri. Una sorta di evoluzionismo economico-sociale. Dall’altre parte si dimostra (Sen, Stigliz, entrambi premi Nobel) la possibilità di un capitalismo meno autoritario, temperato da regole e solidarietà. Quest’ultimo, secondo i suoi estimatori risulta, nel medio periodo, molto più conveniente ed efficace. E per recuperare la riflessione molto stimolante di un pensatore e politico del nostro tempo, Jacques Delors, un’economia svincolata dal solo conseguimento di un interesse personale ma anche sostenuta da valori, deve avere queste tre caratteristiche: La competitività che stimola, la cooperazione che consolida, la solidarietà che unisce.
Il problema sorge nel momento in cui si parla di eguaglianza delle opportunità da offrire a coloro che sono ai margini del sistema, che non hanno la possibilità di salire sul treno della concorrenza e della competizione; che non possono godere di quegli strumenti fondamentali di crescita e sviluppo. Certo, l’economia deve obbligatoriamente creare ricchezza, in termini non soltanto quantitativi, ma anche qualitativi: tutto ciò è moralmente corretto se finalizzato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società in cui vive e opera (Compendio DSC n. 334).E’ purtroppo evidente, comunque, che le opportunità che possono essere offerte dal sistema ad economia di mercato diventano marginali dal momento in cui in molti non hanno la possibilità di accedervi.
Il lavoro quale strumento di democrazia
Oggi si confonde spesso, come diceva Hanna Arendt, la vita activa, cioè la vita dell’uomo come crescita completa, con il lavoro. L’uomo è colui che lavora, è in relazione, vive una quotidianità e non è innanzitutto lavoratore.
Tutti conosciamo l’arti 1 della nostra Costituzione: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Dal dopoguerra ad oggi i passi sono stati molti e diversi per quanto riguarda lo sviluppo di questo fondamento costituzionale. Fino a non moltissimi anni fa la vita era scandita da suoni e rintocchi: per chi lavorava in fabbrica dal suono della sirena, mentre per chi lavorava nei campi da quello delle campane. La vita era racchiusa in ritmi costanti che accompagnavano per tutta l’esistenza. Tanto che si può dire che il matrimonio era anche col posto di lavoro. A vita. E non infrequentemente questo si tramandava di padre in figlio per molte generazioni.
L’economia aveva ritmi diversi e il movimento delle merci non aveva la velocità che ora, non solo ha, ma necessariamente deve avere. All’economia, cadenzata da tempi ben definiti, si affiancava quel movimento di uomini che cercavano di migliorare l’esistenza propria e della propria famiglia emigrando verso quei paesi che offrivano maggiori opportunità. Oggi il movimento ha i medesimi obiettivi, ma va verso un’altra direzione: viene verso i paesi degli ex emigranti trovando difficoltà, suscitando non pochi sospetti, ma anche accoglienza e integrazione. Esiste anche un’altra forma di migrazione, sempre più frequente: quella tra un posto di lavoro e un altro, tra una professione e un’altra.
Il cambiamento è iniziato con la forza propulsiva della globalizzazione che ha creato enormi opportunità ma anche incertezza, precarietà: è subentrata la paura. Di fatto tutto diventa instabile anche perché non ha il tempo di piantare radici. Anzi, piantare radici è, nel contesto socio-economico attuale, proprio controproducente. Il lavoro è entrato in un mercato: c’è chi offre lavoro e chi risponde con la propria disponibilità e professionalità. Una serie infinita di variabili fanno sì che spesso il punto d’incontro tra chi offre lavoro e chi presta lavoro non sempre è lo stesso. Entrambi hanno la continua necessità di rimodellarsi sulla base delle trasformazioni che questo nuovo modello propone. Il lavoro cambia e con esso il posto di lavoro che non è più da ricercare sotto casa. Il sistema globalizzato ha bisogno di persone disponibili a spostarsi, a cambiare e ricambiare completamente modo di vivere, amicizie, abitazioni per essere praticamente sempre in viaggio nell’economia globale.
Il fatto è però, che il lavoro offerto non corrisponde più ad un lavoro che rimarrà tale nel tempo e il posto di lavoro che si andrà ad occupare sarà anch’esso in movimento perché lo stesso posto di lavoro potrà essere occupato da più persone in tempi diversi e con la medesima professionalità. Di fatto il lavoro è un lavoro flessibile e chi offre la sua prestazione può essere riciclato fino alla definitiva usura. Colui che si pone sul mercato del lavoro, soprattutto se giovane, si sente come una piccola pianta in crescita, come un pellegrino che si volge verso la meta, ma continua a camminare senza sapere, però, se arriverà al posto di ristoro successivo.
Il termine flessibile si riferisce ai rami dell’albero che, piegati dal vento, poi, data la loro robustezza, ritornano al loro posto. Essi resistono nonostante i continui e pesanti scossoni. Idealmente la flessibilità è sapersi adattare alle varie circostanze senza farsi spezzare. Quindi è necessario essere straordinariamente duttili e adattabili; chiudere gli occhi di fronte agli eventuali sogni che i genitori avevano per i figli cercando di affrontare il sistema senza farsi stritolare. La domanda da porsi, comunque, è sempre quella di Pico della Mirandola: Come dovrei forgiare la mia vita?
In questa continua corsa ad ostacoli bisogna sradicarsi e sgravarsi di inutili zavorre troppo rigide che farebbero inciampare durante il cammino creando quelle fratture che potrebbero spostarti fuori dallo stesso mercato del lavoro. Così facendo ci si allontanerebbe dalla via cosiddetta maestra della flessibilità, unico strumento attuale per tentare una possibile lettura del proprio futuro senza pensare ad una meta costituita dalla tranquillità lavorativa e sociale.
Tutto ciò crea un impatto sociale ed economico che si ripercuote nelle singole persone e sulla loro qualità di vita. E’ la necessità di assumersi, più che delle responsabilità, dei rischi, che pesano sulla quotidianità, soprattutto delle giovani generazioni. I giovani, infatti, vengono considerati più malleabili nell’assunzione di rischi e di immediata sottomissione, e sono, quasi naturalmente, i più propensi al cambiamento e alle modifiche in “corso d’opera”. Ma com’è possibile progettare a lungo termine quando l’economia ruota attorno al breve periodo se non dell’immediato?
E’ importante capire da dove derivi, soprattutto in Italia, la questione della flessibilità nel lavoro. Ha visto la luce verso gli anni ’80 quando le ragioni della politica si mescolavano a quelle economiche e il modello americano cominciava ad approdare nel nostro paese. Ci si pone il problema della protezione del posto di lavoro e dei lavoratori, che finora è stata uno dei capisaldi del nostro sistema economico e allo stesso tempo di proporre l’introduzione di un modello meno protetto e quindi, necessariamente più flessibile, per ridurre la cronica disoccupazione sempre più elevata. Nascono, tra gli anni ’80 e ’90, quei contratti che modificheranno radicalmente il concetto precedente di contratto e vengono chiamati: Formazione lavoro, Interinale, CO.CO.CO. (oggi Contratto a Progetto), apprendistato; nasce anche il popolo della partita IVA. Nascono anche nuove modalità di lavoro: telelavoro, part time di fine settimana, ecc.. Molto più recentemente, con la famosa legge Biagi, vengono immessi nel mercato nuovi formulari e nuove forme contrattuali: Nuovo Apprendistato, Contratti di formazione e tirocinio, Lavoro a tempo parziale, Lavoro a chiamata, Lavoro temporaneo, Lavoro occasionale, Lavoro accessorio e a prestazioni ripartite (job sharing). Certo un numero notevole di possibilità e di opportunità che il mercato del lavoro può offrire e che velocemente molte aziende hanno messo in pratica per necessità e convenienza, creando una flessibilità e una conseguente precarietà che può stordire ma che, talvolta, può essere considerata anche uno strumento positivo. Pensiamo per esempio alla possibilità di coniugare famiglia e lavoro, di essere maggiormente liberi senza nessun vincolo, di partecipare a molteplici progetti attraverso varie esperienze lavorative e di vita.
Il problema è capire quanti confini sarà necessario superare per riuscire a garantirsi una minore insicurezza lavorativa, retributiva, sociale e familiare. La precarietà, frutto maturo della flessibilità, porta allo spreco, oltre che di professionalità acquisite nel tempo, anche delle possibilità di realizzare se stessi in ambito sociale, affettivo e familiare. Si produrranno, in modo sempre più evidente, delle disuguaglianza tra chi gode di un posto di lavoro a tempo indeterminato e chi sarà cronicamente un lavoratore atipico. Orientarsi in un mercato sempre meno chiaro e risucchiato in un vortice di insicurezza, è quanto mai complicato, anche perché, tra l’altro, non sempre la disponibilità di posti di lavoro corrisponde alla professionalità di domanda-lavoro. E’ a rischio, nonostante l’esaltazione della flessibilità che riduce la disoccupazione (anche i disoccupati?) anche la costruzione della propria personalità, soprattutto tra i giovani. La precarietà oggettiva crea frustrazione e, non infrequentemente, poca stima di sé.
Come già prima si accennava, si possono trovare anche degli aspetti positivi nella flessibilità, soprattutto tra i giovani: pensiamo, per esempio alla possibilità di accesso al lavoro in maniera più dinamica e graduale; pensiamo a chi ama la libertà nel lavoro senza essere troppo vincolato e quindi potersi spostare autonomamente adattandosi in modo meno rigido alle varie situazione che via via si presentano. Certo è che non si può investire nel futuro perché la flessibilità si consolida e l’attesa per una stabilità nel futuro delle grandi scelte risulta complessa e sempre più lontana nel tempo.
Il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo, troviamo scritto nella Laborem Exercens. Ma se il lavoro è veramente il bene dell’uomo, cosa può offrire la precarietà flessibile? E’ evidente che gli scossoni ricevuti dalla perdita di orientamento mettono in crisi anche il riconoscimento del bene dell’uomo. Diciamo che oggi, nel sistema flessibile, l’uomo è un accessorio che viene utilizzato alla bisogna anche se indispensabile.
La flessibilità è un dato, una necessità più che una scelta alla quale, soprattutto i giovani, come dicevamo, ma non solo, purtroppo, non possono sottrarsi. Ciò che prima era esperienza consolidata ora è sempre qualcosa di temporaneo, senza radice. L’esperienza è un azzardo, come un gioco nel quale ci si muove velocemente e che non ammette tempo per pensare; bisogna correre quando si viene chiamati pena rimanere inesorabilmente tagliati fuori. Richard Sennet scrive che La preoccupazione è l’ansia per quello che può avvenire, e si produce in un clima in cui viene esaltato il rischio costante e in cui sembra che le esperienze passate non possano più servire da guida per il presente (R.Sennet, L’uomo Flessibile, ed. Feltrinelli). Quest’ansia continua, può svuotare e far arrivare il lavoratore precario a capire che anche l’assunzione di responsabilità nei confronti di se stesso e della realtà in cui vive è cambiata: è diventata anch’essa più flessibile.
Quale futuro si prospetta per i giovani che entrano ora nel mondo del lavoro? Quale futuro per chi, di media età, è uscito dal mondo del lavoro nel senso che è troppo “anziano” per essere riassorbito senza un’alta qualifica professionale? Per questi ci sono solo pregiudizi nel mercato del lavoro in quanto troppo refrattari ai rischi e quindi si può arrivare anche a negare la loro esperienza. Quale futuro per le donne nel loro dividersi tra casa e occupazione esterna? Che ne sarà degli immigrati? Probabilmente oltre ad essere flessibile e dopo aver delocalizzato il lavoro ci si dovrà delocalizzare come lavoratori se spostandosi velocemente per recuperare contratti anche se poco appetibili professionalmente ed economicamente e quindi riuscire a soddisfare le necessità dalle quali, nonostante le incertezze, non si può prescindere e che concorrono a realizzare la propria dignità umana: una possibile famiglia, una probabile abitazione, forse una vecchiaia meno incerta. Si dovrà diventare dei turisti del posto di lavoro. Ma per il momento anche tutto ciò rimane estremamente incerto.
Una regolamentazione della flessibilità è auspicabile sia dal punto di vista organizzativo che del riconoscimento delle professionalità. Esse sono importanti per l’azienda come lo sono per il lavoratore. Importante anche una continua riqualificazione senza disperdere il patrimonio acquisito dovendo modificarsi per poter sopravvivere. Non ultimo, per chi non è più in grado di rientrare nel mercato del lavoro, vuoi per età, vuoi per scarsa professionalità, vuoi per congetture di tipo economico nazionale e internazionale, la costituzione di nuovi ammortizzatori sociali potrebbe essere un sistema di minor insicurezza.
E’ opportuno ricordare che, in molte democrazie e in particolare quella italiana, la visione lungimirante dei progetti di politica economica e, ovviamente, di politiche per il lavoro e l’occupazione, sono distratti da progetti a medio termine. Questo perché esiste, più che una predisposizione di norme utili allo sviluppo, la necessità di operare per le prossime elezioni. Le generazioni future, pertanto, possono rimanere impantanate nelle sabbie mobili di una politica di sviluppo miope se non cieca. Gli interessi lontani sono nascosti dalla speranza di vincere le elezioni. Pertanto il sostegno alle realtà deboli del sistema diventa sempre più difficoltoso e forse sempre meno remunerativo dal punto di vista elettorale in una prospettiva di economia elitaria e non diffusa sostenuta da una politica praticamente elettoralistica. (S.Zamagni, 44^ Settimana Sociale dei Cattolici, Bologna 2004).
Conclusione
La domanda che sembra ovvia a conclusione di queste riflessione è: che fine farà il lavoratore nel nostro sistema democratico? O forse: si potrà parlare ancora di garanzie all’uomo flessibile? Il compendio della Dottrina sociale della Chiesa al n. 314 parla di un universo di lavori variegato, fluido, ricco di promesse ma anche di interrogativi preoccupanti, specie di fronte alla crescente insicurezza circa le prospettive occupazionali. La competizione, le innovazioni tecnologiche e la gestione dei flussi finanziari vanno armonizzate con la difesa del lavoratore e dei suoi diritti. Ma esisteranno ancora in futuro i lavoratori dipendenti? Sarà l’uomo misura e regola del lavoro o sarà assorbito dal lavoro cessando di essere uomo? Le prospettive sono aperte, molte volte inquietanti. Si naviga a vista nel mare mosso. Un’opera di ricostruzione del sistema lavoro in prospettiva futura è necessaria soprattutto in un sistema democratico che ha bisogno, anch’esso, di ritocchi profondi e non solo di un maquillage passeggero.
BIBLIOGRAFIA
Z.Bauman, La società dell’incertezza, ed. Il Mulino, Bologna 1999.
Z.Bauman, L’amore liquido, ed. Laterza, Roma-Bari 2004.
J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, ed. Feltrinelli, Milano 2004.
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Ed. Vaticana 2004
A.Sen, La democrazia degli altri, ed. Mondadori, Milano 2004
R.Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, ed. Feltrinelli, Milano 2000.
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