giovedì 22 novembre 2007

Etica, sviluppo, solidarietà e finanza

Qualche parola introduttiva


Riscoprire il senso dell’economia, dare un’anima a quanto sembra averla persa è il compito dell’indispensabile rielaborazione per affrontare temi quali sviluppo e finanza. Per evitare di creare enfasi intorno ai problemi utili più per offrire una, seppur lodevole, testimonianza di ingiustizia piuttosto che fare da volano alla loro comprensione, si dovrebbe partire da riflessioni che aiutano ad andare oltre il problema in sé, spesso sottolineato con atti di denuncia, e farlo uscire dalle definizioni per slogan e riportarlo sulla via della comprensione e dell’approfondimento. E’ corretto sottolineare che i grandi temi dell’economia e delle sue conseguenze inevitabili, sono straordinariamente vicini e vanno affrontati con la dovuta serenità per evitare chiusure massimaliste sia per quanto riguarda un liberismo a briglie sciolte, al quale non interessano direttamente le conseguenze delle sue azioni, sia per quanto riguardo il desiderio da parte di gruppi e di singoli di inchiodare a regole troppo rigide la libertà di intraprendere. Creare sviluppo, dare senso ad un sistema economico, offrire opportunità, non possono prescindere dalla valorizzazione della ricchezza ed esaurirsi nell’accumulo di denaro o di beni.
I nostri comportamenti sono spesso caratterizzati dal fattore economico: domande come quanto costa, a cosa mi serve, sono causa di un’operazione economica di cui noi, spesso inconsapevolmente, ci rendiamo protagonisti. Tutti svolgiamo delle operazioni economiche che si fondano sul rapporto qualità- prezzo o costo-beneficio. Veniamo avvolti, coinvolti e talvolta stritolati dal sistema economico che ci circonda; crea ricchezze enormi ed enormi miserie; garantisce benefici e privilegi ai pochi dentro il sistema, ma danneggia in modo talvolta irreversibile, coloro che sono lontani o ai margini del sistema.

Per accostarci all’economia

Il nostro sistema sociale ed economico cambia rapidamente in una sorta di meccanismo ben oliato dal quale non ci si può chiamare fuori. Gli eventi si rincorrono e l’economia li domina cercando di trarne il massimo beneficio richiedendo rigore nell’applicazione delle norme di mercato, dinamicità nel percepire i cambiamenti, equilibrio nel valutare i costi e i benefici, attenzione alla competizione per evitare scossoni che potrebbero generare situazioni drammatiche. Ma si continua a ricercare valori da anteporre alle forzature del gioco economico per non enfatizzarlo, dandogli la giusta spinta e guidandolo verso il suo fine che è pienamente umano e non può che essere incarnato nella persona in tutta la sua dignità e ad ogni latitudine.
L’economia, come sappiamo, si costituisce su uno spirito libero, di intraprendenza e abilità personali; non ama le regole esogene che sono, per definizione, una riduzione della libertà in termini assoluti la quale, dell’economia di mercato, ne è il fondamento. Il principale strumento che l’uomo conosce per la realizzazione degli obiettivi che l’economia si pone, è il mercato. Esso ha una storia lontana che risale ai francescani i quali ripetevano che “l’elemosina aiuta a sopravvivere ma non a vivere. Perché vivere significa produrre e l’elemosina non aiuta a produrre”. Esso si caratterizza per la massimizzazione del profitto frutto dell’interesse personale e dell’egoismo che sono complementari; è il motore trainante di tutto il sistema assieme alla competizione. Quest’ultima è lo strumento che spinge continuamente il sistema a migliorarsi, a ricrearsi, rigenerarsi e riprogettarsi. E’ il gioco del mercato che, ormai, saltato ogni confine materiale e vivendo spesso in un mondo virtuale, è diventato una grande piazza nella quale gli individui scambiano beni sia reali che immateriali e dove si creano grandi opportunità, ma anche enormi disuguaglianze.
La grande piazza del mercato si riempie anche di relazioni che si costituiscono come beni con valore aggiunto a quelli del mercato ma non hanno valore economico; esse creano “ricchezza” non misurabile con i comuni misuratori di ricchezza. Questi “beni relazionali” aggiungono valore allo scambio, anzi, diventano uno dei fondamento dello scambio stesso. Sappiamo, per esempio, che esiste un mercato che può scambiare senza profitto beni relazionali perché si trova a dover operare, non per la massimizzazione del profitto, bensì per la massimizzazione della qualità della vita di persone alle quali il mercato tradizionale non ha lasciato spazio per recuperare dignità.
Diciamo, dunque, come afferma Zamagni, che esiste una “pluralità di mercati” capaci di creare ricchezza ma soprattutto quella sensazione di felicità o di benessere che è vitale per chi si trova a non essere “produttivo” secondo le richieste della stretta economia di mercato, ma essere in grado, attraverso le sue abilità, di produrre in modo particolare beni scambiabili e a costruire un sistema di relazioni utili alla realizzazione di sé come persona. E ciò non è solamente un complemento di mercato, ma una realtà di fatto che non può essere dimenticata, ma applicata, seppur con formule diverse, al mercato tradizionale. Il quale mercato sarà sempre più efficace ed efficiente se arriverà alla riconsiderazione delle relazione umane come una reale e significativa aggiunta di valore. Pertanto, come scrive il documento della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) Etica, sviluppo e finanza, la necessità primaria ora è di “allargare lo spettro degli obiettivi” allontanandosi dalla sola prospettiva economicocentrica verso un’economia che guardi allo sviluppo integrale della persona. In sostanza, porre attenzione e dedicare energie per costruire “un’economia al servizio della persona”.
Quindi si deve parlare di “vita economica”, piuttosto che di economia tout court perché, riprendendo ancora Zamagni alla recente Settimana Sociale dei Cattolici, essa genera valore che si orienta verso orizzonti non imbrigliati nell’esclusiva massimizzazione del profitto. Quindi una sorta di bio-economia da coniugare con la formula per guardare alla persona e al suo sviluppo integrale. Ed è nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa che troviamo la sottolineatura, chiara e determinata, che riconosce il valore della persona in dignità; la realizzazione è nella sua integralità e non in un esclusivo accumulo di beni: “Oggetto dell’economia è la formazione della ricchezza e il suo incremento progressivo, in termini non soltanto quantitativi, ma qualitativi: tutto ciò è moralmente corretto se finalizzato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società in cui egli vive e opera” (CdsC n. 334)

Tra etica ed economia

a. Una sintesi inutile e dannosa.

Nel sistema economico attuale sembra proprio che la sintesi tra etica ed economia sia impossibile. Alcuni autori contemporanei che appartengono al pensiero delle scuole neo-liberiste di Chicago e Vienna, affermano che la sintesi tra l’etica e l’economia non è possibile perché l’economia e il mercato, nel caso riconoscessero al loro interno degli errori, sarebbero in grado di gestirli e risolverli da soli. Non c’è quindi necessità di regole che guidino l’economia dall’esterno. Ogni regola esterna al mercato andrebbe a violare, come abbiamo visto, la libertà di mercato e dei suoi operatori. Di conseguenza l’etica funzionale all’economia è guardata non solo con sospetto, ma con il rifiuto di chi sostiene la sua inutilità e, talvolta, la sua dannosità. Tutto è guidato da un ordine naturale e nessuno può intromettersi in ciò che è così per sua natura. Ovviamente, in questo sistema fatto di interesse personale e di fiducia tra gli operatori, ha poca parte in causa anche lo Stato che non può vantare diritti normativi su ciò che è assolutamente libero. Dev’essere uno Stato “minimale”.

b. Una sintesi necessaria e utile.

C’è chi invece, non vede antagonismo tra etica ed economia, anzi ritiene che la loro complementarità sia necessaria all’economia e non sia un motivo di recessione, ossia la premessa per favorire il sottosviluppo. Il punto fondamentale è riprendere a riflettere sui bisogni degli individui e non solo sulla soddisfazione immediata dei desideri, recuperando quei valori in grado di far sì che l’economia non sia invasiva di qualsiasi ambito della vita umana. Infatti, afferma Zamagni, è da ribadire che “l’effetto più deleterio della dottrina self-interest, tipica del sistema di mercato avulso dall’etica,è stato quello di farci credere che un comportamento che si ispiri al valori diversi da quello dell’interesse personale conduca al disastro economico. Il che non è”.

I deboli nel mercato

Quando si vuole affrontare il problema dello sviluppo non si può non ricorrere anche ai concetti di “sotto-sviluppo” o di “in via di sviluppo”. Spesso questi due concetti vengono usati in modo erroneo come sinonimi. Addirittura c’è qualcuno che parla di “paesi poco sviluppati”. A questo punto bisognerà mettersi d’accordo sul significato di sviluppo. Leggiamo nel dizionario il termine sviluppare dal quale deriva sviluppo: Aumentare, far crescere e progredire con una minore o maggiore regolarità e gradualità. In particolare in riferimento alle attività economiche e intellettuali. E’ chiaro che anche la definizione del dizionario è alquanto insufficiente perché non entrare nel merito, ma quando ci riferisce agli altri concetti che definiscono la situazione opposta, e cioè quella di sottosviluppo, è evidente che esiste una mancanza di tutto ciò che potrebbe contribuire allo sviluppo: una riduzione della crescita in riferimento sia alle attività economiche che intellettuali. Dobbiamo anche sottolineare che le due attività, quella economica e quella intellettuale, sono intimamente connesse perché si possa parlare di sviluppo: dove manca l’istruzione non ci può essere sviluppo economico e dove non ci sono possibilità economiche mancano anche le possibilità di avere opportunità di crescita intellettuale. Ma questa ultima, se sostenuta, può ridurre il percorso per arrivare ad uno sviluppo progressivo e pienamente umano senza che questo sia catalizzato solo dall’economia e dal mercato.
Possiamo a questo punto sottolineare che non può esistere un unico modello di sviluppo. Pretendere o avventurasi attorno ad un pensiero unico di sviluppo può essere fuorviante e disastroso. Si potrebbe passare dal danno alla beffa se non si tiene conto dei diversi sistemi di vita e delle condizioni oltre che delle tradizioni dei paesi sotto-sviluppati. In effetti: che cosa vuol dire svilupparsi ed essere felici per chi abita in India, piuttosto che in Francia o Congo? Le risposte potrebbero molteplici sempre in fieri e mai definitive per i continui cambiamenti che, in nome della globalizzazione, in ogni luogo del pianeta si susseguono a ritmi spaventosi.
E’ certo, e siamo sicuri di non essere smentiti, che il progresso delle società occidentali ha avuto un ruolo fondamentale nel creare condizioni di vita migliori per un numero sempre maggiore di persone. Pensiamo solo alla possibilità di curarsi che molti prima non avevano e ora hanno; l’accesso all’acqua potabile (anche se qui si aprirebbero un capitolo molto interessante). Ovviamente molto rimane ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda la gestione della stessa economia o delle economie che non sono in grado di salire sul treno di un sistema che è diventato libero, ma allo stesso tempo protezionista nel senso che cerca di offrire opportunità ma a certe condizioni, non infrequentemente lontane dal riconoscimento della dignità della persona. E qui non si vuole colpevolizzare nessuno, ma certamente non negare che, negli anni, molti hanno speculato giocando sui termini sviluppo-sottosviluppo salvaguardando un tornaconto politico-economico e mai affrontando il vero nodo del problema e cioè la riconsiderazione dei parametri di sviluppo e di “crescita”. Gli standard di produzione, reddito e i consumi non possono evidentemente essere utilizzati allo stesso modo in paesi dove questi, rapportati alla miseria, diventano veramente paradossali. Di fronte l’incapacità di governi deboli politicamente, sostenuti da politiche deboli, con economie deboli che sono stati resi tali da politiche di controllo economico e politico da parte dei paesi sviluppati a partire dalla decolonizzazione degli anni ’60, si deve investire per soddisfare i bisogni primari e non solo. La filantropia pietista ha senso solo per la soluzione del problema limitato che vuole contribuire a risolvere. Lascia il tempo che trova, però, per aprire spazi nuovi, di collaborazione socio-economica e politica al fine di trovare formule per democratizzare (senza imporre!) questi paesi lavorando per il futuro e per la crescita della dignità della persona, della salvaguardia dell’ambiente nella quale vive, della coesione sociale, della crescita del grado di istruzione.
Pensiamo, per esempio, ad una questione drammatica, dimenticata, ma sempre presente: il debito estero dei paesi poveri. Un fardello che mette alla corda anche i più ottimisti sulla possibilità che i paesi indebitati abbiano la possibilità di uscire dalla precarietà, dalla miseria e dal sottosviluppo. Un peso che le giovani economie e i giovani governi hanno accumulato negli anni non avendo avuto la possibilità di restituirlo e spesso, non avendo investito le ingenti somme ricevute per la crescita dei loro paesi perseverando in uno lo sviluppo sociale , economico, culturale, sanitario precario o addirittura insignificante. I fondi elargiti dal FMI, dalla Banca Mondiale o dalle nazioni più ricche, sono finiti nell’acquisto di armi utili alla difesa del potere conquistato spesso con sanguinosi colpi di stato o guerre civili. Forse sarebbe opportuno ricominciare a parlarne. E’ molto probabilmente una delle cause maggiori del sottosviluppo determinate dall’approssimazione nell’elargire prestiti da parte degli organismi internazionali a capi di governo che di democratico non avevano nemmeno il nome. Spesso i prestiti venivano rifinanziati col risultato di spostare più là i termini di pagamento con l’unico risultato di prolungare l’agonia. La comunità si è impegnata ad eliminare i debiti dei Paesi più poveri perché questi debiti erano diventati inesigibili e perché riteneva che questo fosse un modo per creare le premesse positive allo sviluppo di questi paesi. . Chiaro che non è una cancellazione senza condizioni. Gli stati che sono stati ritenuti beneficiari della cancellazione, dovranno impegnarsi ad utilizzare il denaro non versato per investimenti in infrastrutture a favore della propria popolazione. Qualcosa è stato fatto soprattutto dopo le grandi campagne del 2000 portate avanti dalla Chiesa e da altre organizzazioni umanitarie. La strada, però, è ancora molto lunga.

Quali scenari

Di fronte alle difficoltà dei paesi poveri di trovare la loro dimensione di sviluppo, aiutati da una catena di solidarietà, lodevole ma non sempre efficace, si ha l’obbligo di partire dal riconoscimento delle energie che questi paesi hanno da sprigionare per contribuire tirarli fuori da situazioni patologiche. Non possono essere continuamente viste solo come emergenze e trattate come tali; il sistema di politica economica internazionale, ormai, non può più stare a guardare.
In caso contrario dovremo affrontare in modo ancora più massiccio il movimento migratorio dai paesi poveri ai paesi ricchi con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: dalle crisi sociali, alla criminalità, alla xenofobia, al razzismo. Ed è un movimento inarrestabile, impossibile da arginare per un motivo semplice: la globalizzazione delle merci ha avuto come conseguenza la globalizzazione degli uomini, che in modo relativamente rapido possono spostarsi da un punto all’altro del pianeta pur di raggiungere quei paesi dove pensano comunque di trovare condizioni di vita che nei paesi d’origine non hanno.
Ma l’immigrazione non è la sola situazione che i paesi sviluppati dovranno affrontare perché il mercato è esigente e la velocità dei cambiamenti è talmente rapida che si possono creare delle falle nel sistema con conseguenze drammatiche. Pensiamo a come l’ambiente venga monitorato e riconosciuto come essenziale per la sopravvivenza dell’umanità e fondamentale per lo sviluppo. Le situazioni che ci vengono presentate non confortano, anzi; l’allarme che quotidianamente viene dato dagli esperti non ci può lasciare tranquilli: inquinamento, deforestazione, difficoltà di approvigionamento dell’acqua dolce, inquinamento industriale, aumento esponenziale della popolazione mondiale, soprattutto nei paesi poveri, ecc.. E’ doverosa, pertanto, una maggiore attenzione allo sviluppo, all’acquisizione di un ben-essere secondo criteri di sostenibilità ambientale, sociale, economica,. Tutto ciò a vantaggio della persona perché essa possa realizzarsi nella sua pienezza, nella sua originaria e originale identità, in uno spirito di solidarietà; uno sviluppo integrale della persona in tutta la sua umanità. E’ una grande responsabilità dei paesi ricchi perché “uno dei compiti fondamentali degli attori dell’economia internazionale è il raggiungimento di uno sviluppo integrale e solidale della persona” (CdSC n. 373). Eliminare o ridurre le disuguaglianze sono una priorità non più rinviabile se si hanno a cuore le sorti della parte più debole dell’umanità.
E’ una sfida che non può più attendere per evitare conseguenze delle quali dovranno occuparsi altri dopo di noi. Le politiche del benessere che guardano agli esseri umani come beneficiari e non come protagonisti del cambiamento nel processo di sviluppo non possono più albergare in una realtà che deve rendere le persone autrici del proprio sviluppo e della propria esistenza. L’approccio che mira a soddisfare i bisogni essenziali è generalmente centrato sulla preoccupazione di fornire beni e servizi materiali a gruppi svantaggiati piuttosto che sul tentativo di allargare le possibilità umane offrendo opportunità, conoscenze, competenze sempre tenendo presente le capacità che ognuno possiede e può mettere a disposizione.
Pertanto lo sviluppo dovrà essere pluridimensionale nel senso di una costante attenzione alle condizioni possibili di cambiamento e di risollevazione dalle realtà di marginalità e miseria dei paesi dalle scarse opportunità. Comunque, come dice A.Sen, bisogna sempre tenere presente la differenza tra il ricco che digiuna e il povero che muore di fame: hanno sostanziali diversità nelle possibilità di scelta. E se una persona non solo non sa cosa scegliere ma nemmeno le viene garantita la possibilità di scelta, viene a mancare il fondamento dello sviluppo che è la libertà. Aprire nuove prospettive per il futuro è cogliere l’occasione che è sempre di costruire pari opportunità iniziali che ognuno dovrebbe avere per poter scegliere
Dobbiamo anche sottolineare, tra l’altro, che i poveri diventano l’oggetto privilegiato della filantropia dei ricchi i quali, paradossalmente, ne hanno bisogno per tranquillizzare la propria coscienza. Sono gesti che hanno una forte valenza umanitaria, che non vanno giudicati, ma le perplessità sugli obiettivi rimangono. Ralf Dahrendorf, ironicamente diceva che “i ricchi possono diventare più ricchi senza di loro (poveri); i governi possono essere rieletti anche senza i loro voti” (Quadrare il Cerchio, ed Laterza, p. 42).


Il ruolo della solidarietà

Vorrei partire dalla definizione di solidarietà data da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei Socialis perché mi sembra la più adatta a capire anche il senso della responsabilità di ognuno. Il papa scrive che la solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tanti persone vicine e lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti sono responsabili di tutti (SRS, n. 38). Come si può leggere, la solidarietà non può essere solo pietas, ma l’utilizzo di mezzi efficaci per far uscire uomini e nazioni dalla condizione di sottosviluppo. Questo è un problema economico e politico, di scelte strategiche e di strumenti adeguati. Si tratta di politica economica e di politica finanziaria; si tratta di costruire percorsi per far sentire uguali i diseguali fondato su principi di reciprocità; non solo diritti e doveri ma opportunità di accesso al mercato o ai mercati.
E’ da riconoscere in ciò un processo convincente perché responsabilizza chi la fa la solidarietà, la genera, e chi è il fine della solidarietà.. Questo non per un senso del dovere da parte di chi vive nella miseria avendo davanti a sé poche luci e molte ombre, ma perché la responsabilizzazione è il metodo migliore per conseguire livelli accettabili di equità; per elevare, chi vive dipendendo da altri, ad un livello superiore di dignità, quello di essere indipendente dalla rete solidaristica raggiungendo, autonomamente, condizioni di vita migliori e riducendo gli effetti di una disuguaglianza sempre più marcata. Queste condizioni di vita migliori, frutto certamente anche della solidarietà, possono creare situazioni virtuose per aiutare molti altri ad uscire dalla miseria e, forse, anche dalla solitudine.
E’ la solidarietà che crea valore nella reciprocità. Porta al riconoscimento dell’altro quale soggetto intraprendente e capace di autonomia; non è più solo oggetto della mia pietà emotiva costruita, magari, attorno ad un evento tragico o, forse, per assopire quel senso di colpa che è in noi. In sostanza, solidarietà e responsabilità sono interdipendenti perché possono mettere in moto atteggiamenti nuovi destinati, un giorno, a migliorare le condizioni di vita di numerose popolazioni; un viatico straordinario per lo sviluppo, capace di recuperare ricchezza, ma soprattutto dignità.
Ciò non significa che la solidarietà come atteggiamento libero, svincolato da qualsiasi interesse personale e finalizzato esclusivamente al bene dell’altro, tradotto semplicemente nell’evangelico amore verso il prossimo, debba essere abbandonata. Anzi! Ci sono situazioni drammatiche che necessitano di interventi immediati. Ma il passaggio non può attendere perché la solidarietà non ristagni, diventi sistema consolidato e ingenti somme di denaro vengano utilizzate senza creare sviluppo. Perché, se la solidarietà è una delle condizioni per la convivenza tra i popoli e le persone, si deve riconoscere anche pari dignità tra gli stessi. Gli uomini devono avere la “libertà di conseguire” (A.Sen, La ricchezza della ragione) e di essere padroni del loro destino confrontandosi e operando pariteticamente e non in spirito di soggezione.
In tutto ciò, a mio parere, sta il senso della “lotta alla povertà” di cui tanto si parla e per cui si stanziano fondi, si impegnano energie e risorse. Ma ciò che deve cambiare radicalmente è la “relazione donatore-beneficiario” (Documento CEI, Etica, sviluppo e finanza) attraverso nuovi equilibri e una maggiore partecipazione attiva dei paesi poveri anche nelle decisioni a grandi livelli perché anche questo può aiutare ad uscire dalla marginalità.

Quali strumenti


Quando si parla di strumenti che condizionano positivamente o negativamente il mercato o i mercati, dobbiamo pensare al sistema finanziario: movimento virtuale di denaro che rapidamente corre attraverso vie digitali utilizzando metodi speculativi per la massimizzazione del profitto. Non possiamo dimenticare come la finanza, diciamo quella cattiva, abbia creato danni economici ingenti e non solo a persone ignare che magari, fidandosi, avevano investito i loro pochi risparmi in titoli dimostratisi appartenenti a scatole vuote. Pensiamo a Parmalat, Cirio o a tutti i nuovi finanzieri emergenti finiti, alcuni di loro in galera e i loro investimenti in una bolla di sapone. Si può sottolineare, che la finanza è uno straordinario strumento di inclusione ma allo stesso tempo, di esclusione: da una parte chi pensa di investire i propri pochi risparmi per poter avere delle rendite, dall’altra coloro che, purtroppo ignari dell’evolversi negativo di certe situazioni, si trovano a dover fare i conti con chi ha lucrato in maniera disonesta, magari vestendo la maschera dell’onestà.
Necessita una finanza maggiormente responsabile, capace di offrire ai cittadini delle opportunità di investimento garantite e rispettose, che sappiano coniugare efficienza e solidarietà, profitto e trasparenza, sostenibilità e chiarezza nelle informazioni, comportamenti etici per il rispetto dell’ambiente e della dignità dell’uomo. Ma a tutto ciò va aggiunto anche una forte sensibilizzazione di imprese e cittadini investitori perché riconoscano che il loro denaro investito in titoli o fondi, può essere uno strumento eccezionale anche per risollevare dall’indigenza e dalla povertà un grande numero di persone. Quindi si parla di un’educazione per i risparmiatori perché siano stimolati ad esigere chiarezza sulle finalità e sugli investimenti dei gestori dei fondi stessi. E’ un’importante assunzione di responsabilità anche dei gestori; dovranno, di fronte all’incalzare continuo di investitori sempre più esigenti e che chiedono giustamente un rendimento adeguato, ma anche, ed è questa la novità, una gestione etica del loro risparmio, ripensare il modo stesso di fare finanza. Gli investitori , in base alla loro sensibilità e alle loro motivazioni valoriali, cominciano a scegliere dove investire il proprio denaro. Non è più la sola rendita l’unica misura del possibile guadagno, bensì anche una serie di criteri etico-valoriali che le si affiancano e che, non infrequentemente, passano al primo posto nella scelta delle priorità di investimento. Le scelte cominciano spesso a cadere su aziende che operano nel campo del rispetto dell’ambiente, della cooperazione e dello sviluppo internazionale; quelle, per esempio, che operano nella finanza etica scartando quelle che operano al di fuori della sostenibilità sociale.
Ma c’è anche chi dalla finanza é inesorabilmente escluso. Non vi partecipa perché non ha i mezzi e gli strumenti per parteciparvi e, probabilmente, non è nemmeno consapevole della sua situazione di esclusione anche se potrebbe averne necessità per iniziare un percorso positivo, di inclusione nel sistema sociale economico. Diciamo pure che la grande finanza non ha interesse per questa fascia di popolazione mondiale nonostante possa annoverare nel proprio portafoglio fondi di investimento che vanno a finanziare, per pura operazione di marketing, opere meritorie nei paesi poveri.
La riflessione che si dovrebbe fare è quella di riuscire a coniugare sviluppo e giustizia sociale ed economica, utilizzando negli investimenti dei criteri che pongano attenzione principalmente alla dignità dell’uomo alla sostenibilità sociale e ambientale. Credo che alcuni esempi si possano fare senza per questo ritenere che siano gli unici ad utilizzare criteri etici nella corresponsione di aperture di credito e nell’investimento dei capitali raccolti. Pensiamo, per esempio, alla Grameen Bank fondata Mohammed Yunus, premio nobel per la pace 2006. Con pochi strumenti e anche con poco denaro, sono riusciti a mettere in moto un meccanismo virtuoso di credito, anzi, di microcredito, che ormai coinvolge una moltitudine di famiglie non solo in Bangladesh, nazione tra le più povere del mondo, dove la banca ha avuto origine. Il microcredito finanzia coloro che non possono dare garanzia alla banca, cioè i cosiddetti “soggetti non bancabili”, ma che hanno un progetto operativo significativo per mezzo del quale possono ottenere risultati importanti sia come profitto per un tenore di vita dignitoso, sia di sostegno e di rispetto ambientale. Nel microcredito c’è la ferma convinzione che lo sviluppo passa attraverso una forma legale di crediti bancari, seppur minimi, ma con grande valore per gli esclusi dalla normali operazioni di credito. Questo sistema, ha raggiunto più di 67 milioni di persone che possono ancora sperare in una vita diversa, migliore.
In sostanza, dice Muhammad Yunus: “Tutti gli esseri umani, senza eccezioni, hanno capacità imprenditoriali. Fa parte della nostra natura. Il fatto che tali capacità siano riconosciute ad alcune persone e ad altre no dipende solo dalla società in cui viviamo. Ad alcuni, non è stata offerta l’occasione di manifestare quelle capacità ma esse esistono” (Repubblica, 15.11.2007).
Esistono anche altri strumenti che operano per la crescita e lo sviluppo: dalla Banca Etica, alla Cooperazione internazionale, al Commercio Equo e solidale; dalle ONG di vario genere alla grandi organizzazioni che fanno capo all’ONU, che qui, però, non abbiamo il tempo di trattare.

Una parola conclusiva

Ci sono ancora speranze? Se ascoltassimo Woody Allen: Il denaro non fa la felicità, figuriamoci la miseria, difficilmente potremmo avere ancora il coraggio di credere che qualcosa potrà cambiare. Ma la sensibilità delle persone, l’informazione, i valori condivisi e la riconsiderazione in chiave di responsabilità, cominciano a fra muovere dei passi importanti. Certo che la finanza etica, di qualsiasi origine, è non molta cosa dei movimenti mondiali e considerata per pochi iniziati. Probabilmente la battaglia è di uscire dalla nicchia e cercare di far capire che la finanza etica lavora per lo sviluppo, la crescita, il rispetto dell’ambiente e il conseguimento della dignità dell’uomo ed è conveniente per gli operatori. Il guscio ideale protettivo nel quale troppo spesso ci si chiude può avere dei limiti; uscire allo scoperto, saltare l’ostacolo e proporre un nuovo modello di sviluppo sostenuto da un nuovo modello di finanza è possibile.

Che fatica partecipare!

Dò il benevenuto a voi che vi sottoponente al
sacrificio di esserci, di contribuire a questa finestra. Qui dialogo e
approfondimenti troveranno terreno fertile.
Alla fine:


"La laicità, intesa come principio di distinzione tra stato e
religioni, oggi non è solo accettata dai cristiani, ma è
diventata un autentico contributo che essi sanno dare
all'attuale società, soprattutto in questa fase di costruzione
dell'Europa:
non c'è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento
all'istanza di laicità".

Enzo Bianchi "La differenza cristiana" ed.Einaudi


"E' un obbligo eterno fra esseri umani non far soffrire la fame ad alcuno quando si ha la possibilità di dargli assistenza"

Simone Weil

"Salvaguardare i diritti degli altri è il fine più nobile e bello di un essere umano"

Kahlil Gibran