giovedì 29 novembre 2007

L'etica? Un dono della speranza

Enzo Bianchi (priore monastero di Bose)
La Stampa, 12 marzo 2005

La crisi della morale profilatasi alla fine dell’Ottocento è divenuta, un secolo più tardi, una vera e propria dissoluzione. Dissoluzione dei valori resa manifesta nella caduta dei grandi totalitarismi presentatisi come portatori e restauratori di grandi valori assoluti: i totalitarismi hanno caratterizzato il Novecento come una grande lotta tra valori etici contrapposti, ma il loro crollo ha significato anche uno svuotamento delle etiche prodotte in ambito non religioso. Così oggi ci troviamo in una stagione che, in riferimento all’etica, presenta tratti paradossali: da un lato, con l’esaurirsi della spinta propulsiva delle ideologie messianiche secolarizzate, si constata una crisi delle etiche cosiddette “laiche”, d’altro lato assistiamo a un’emergenza sempre più chiara e solida di etiche connesse a una confessione di fede le quali, tuttavia, proprio per questo non possono aspirare, in una società multireligiosa e multiculturale come l’attuale, a una pretesa “universalità”.
Ne consegue la percezione sempre più profonda nella società odierna di un’incapacità a elaborare valori fondamentali comuni. Si pensi, esempio quanto mai all’ordine del giorno, agli interrogativi sollevati dalle nuove frontiere della ricerca scientifica. Il pluralismo, infatti, è elemento indispensabile per una democrazia aderente alla libertà e allo stato di diritto, elemento che pone l’accento sulla molteplicità, la diversità, la complessità, la concorrenza e la ricchezza di ciò che è offerto per la scelta di ciascuno, ma che è per contro impotente a produrre l’unità della convivenza civile. Il rischio del pluralismo è il relativismo, l’indifferenza, il trasformarsi in una sorta di indifferentismo che non consente di trovare princìpi comuni, elementi di fondamento per un progetto condiviso di polis, per una storia da costruire insieme.
Sorge allora la domanda se sia ipotizzabile una “etica comunitaria” condivisibile da uomini e donne nel pluralismo di fedi e di culture. Da alcuni anni in tutta Europa, soprattutto dov’è ancora significativamente presente la confessione cattolica, si è avviato questo dibattito sulla possibilità di un’etica comune con i non cristiani e ci si è chiesti se sia possibile un’etica laica o, meglio, diverse etiche laiche. Però, non appena ci si addentra a discuterne i contenuti, riaffiorano subito rigidi schieramenti “confessionali” che la dicono lunga sulla diffusa impreparazione a condurre un dialogo franco e autentico. Quando gli stessi cristiani si arroccano su alcune puntuali convinzioni derivate dal loro patrimonio di fede e le assolutizzano, rischiano di dimenticare che per la grande tradizione cristiana l’esistenza umana trova il suo valore proprio nella relazione con gli altri uomini: la vita è relazione, sicché l’essere umano è tale quando ha davanti a sé un “tu” che lo rimanda al dialogo, alla comunione intesa come solidarietà e partecipazione. Il primo principio etico è l’alterità che, per i cristiani, conosce queste declinazioni: io e il mio prossimo (coloro con i quali vivo in stretto contatto quotidiano), io e gli altri (quanti condividono con me la storia, la terra, il tempo), io e, tra gli altri, gli ultimi (quali che siano le condizioni in cui si manifesta e i nomi che riceve questo essere ultimi). Del resto, se per un credente nel Dio rivelato nella Bibbia l’uomo è a immagine di Dio, allora l’altro, il diverso, lo straniero è in realtà parte di me, è costitutivo di me stesso e della mia identità: io non sono senza l’altro, così simile e così diverso da me.
Né va dimenticato che per gli stessi cristiani, e da sempre, l’etica è elaborata anche a partire dalla storia. Il vangelo, infatti, ispira sì l’agire storico dei cristiani, ma è nella stessa storia che diviene comprensibile o meno. L’ethos non è dato una volta per sempre, non è calato dall’alto né normativamente contenuto nei libri, ma è costantemente elaborato nella storia, nel cammino fatto accanto e assieme ad altri uomini. Basterebbe una lettura non fondamentalista della Bibbia per rendersi conto, per esempio, dell’apporto dell’etica egiziana e mesopotamica alla sapienza di Israele, oppure dell’influenza dell’ethos greco visibile in diversi passi degli scritti di san Paolo. Sì, l’etica è esperienza e dono: per questo occorre che le religioni – soprattutto quelle monoteistiche, maggiormente tentate dall’esclusivismo e dall’aggressività – elaborino un’etica comune con chi è presente accanto a loro nella polis, nello spazio sociale condiviso.
Certo, questa elaborazione comune richiederà a tutti i soggetti di abbandonare la sterile retorica attorno al dialogo e di affrontare invece con realismo i rischi e le difficoltà che ogni dialogo autentico comporta. Richiederà la consapevolezza che senza disponibilità all’accoglienza dell’altro non si potrà mai avere costruzione comune, ma solo contrapposizione di barricate tante più fragili quanto più erette “contro” un interlocutore cui si è negato ascolto. Richiederà di privilegiare il rispetto per le minoranze e i loro diritti, non a scapito bensì a solido fondamento dell’affermazione della volontà della maggioranza. L’elaborazione di un’etica condivisa richiederà cioè l’accettazione preliminare di una volontà di percorrere insieme un preciso cammino nella storia: e accettare questo significa assumerne anche i rischi, le empasses, le contraddizioni che inevitabilmente contrassegnano un confronto di tale spessore e portata: richiederà insomma quella capacità di “rispondere” di se stessi e degli altri che ha nome responsabilità.
André Malraux ha scritto che il xx secolo ha rappresentato la scoperta dei demoni che sono in noi, delle profondità oscure ed enigmatiche che ci abitano. La dura scoperta di essere “stranieri a noi stessi”, che è una delle acquisizioni ereditate dal secolo da poco concluso, la scoperta dei limiti della razionalità e della fede stessa – entrambe incapaci di rendere conto pienamente dell’uomo e del mondo nel loro restare permeati da una dimensione di tenebra, di enigma – dovrebbe inculcare quell’umiltà che è base di partenza di un’etica veramente consensuale. Sprovvisti di certezze e sicurezze assolute, noi tutti, laici e credenti, forse veniamo preservati dall’arroganza e possiamo aprirci all’incontro sul terreno arduo ma affascinante dell’umano.

lunedì 26 novembre 2007

Padova 24 novembre 2007

ELEZIONE COORDINATORE PROVINCIALE PARTITO DEMOCRATICO

Sabato 24 novembre 2007 un altro importante passo verso la piena operatività del Partito Democratico. A Padova è stato eletto il Coordinatore Provinciale nella persona di Fabio Rocco. Quest’ultima elezione sarà provvisoria fino a quando, nel mese di gennaio, attraverso il meccanismo delle primarie, verrà scelto il nuovo Coordinatore Provinciale e il Coordinatore Comunale. La convergenza su Fabio Rocco è stata unanime. La sua esperienza politica, anche se giovane (32 anni), dà la garanzia per transitare il partito verso l’elezione definitiva del Coordinatore. Il compito di Rocco, che prima era Segretario Provinciale dei DS, anche se temporaneo, non sarà semplice né rapido. Dovrà iniziare a costruire il partito in tutta la Provincia di Padova dove i circoli dei due maggiori partiti, Margherita e DS, confluiti nel PD si porranno il problema della loro presenza sul territorio e di come far passare una politica nuova con un modo nuovo di fare politica. Un compito che dovrà svolgere in breve tempo, cercando di essere sintesi tra le diverse esperienze e provenienze, e cercare di traghettare definitivamente anche i più ricalcitranti ad assumersi la responsabilità del confronto, del dialogo aperto su temi difficili da digerire; dovrà anche far sentire tutti “democratici” , eletti ed elettori.
Qualche accenno del nuovo Coordinatore anche alle alleanze che i giornali riportavano; “Dialogo aperto, ma il riferimento deve rimanere dev’essere il PD”. Io penso che su questo ci sarà ancora molto da riflettere.
Alla candidatura di Fabio Rocco si era aggiunta, autonomamente, anche quella di Enrico Pistelli, poi ritirata.
Aderire al PD sarà importante per essere partecipi al cambiamento che ha, in qualche modo, provocato delle ferite profonde nella ormai pseudo coalizione di centro destra. Su come aderire al partito nuovo, Fabio Rocco ha parlato di tessere ma anche di altre forme che possano superare il tesseramento come sinora veniva considerato; diciamo un’appartenenza più diversificata anche attraverso mezzi più moderni. Questo per evitare l’uso strumentale delle tessere.
SI è ribadito di prendere sul serio il popolo delle primarie di non dimenticarsi di coloro che sono, in un certo senso, i fondatori di questo partito; di quella base che nella maggior parte non proveniva dai partiti preesistenti. Bisogna cercare di coinvolgerli, di comunicare con loro, di metterli al corrente del cammino del Partito Democratico. Ma soprattutto si è sottolineata la necessità di fare politica, di riempire il contenitore che si sta costruendo anche di contenuti per iniziare a dare risposte ai problemi delle persone evitando populismi di basso profilo o tentativi di soluzione mal riusciti.
Non so se ci sentiremo ancora prima di Natale. Vi auguro pertanto un sereno Natale e un buon inizio di 2008.

Democrazia e Lavoro nella società post-moderna

di Nereo Tiso
Alcune note introduttive

Parlare di post modernità vuol dire fare i conti con la costante presenza del rischio, del movimento, della libertà; un continuo trapasso da un sistema di valori ad un altro. E’ il cosiddetto pensiero debole, della relativizzazione di valori e regole; diciamo che si è passati da un ordine costituito nel quale le regole erano legittimate da una accettazione generale, ad un ordine in cui, invece, le regole vengono subite. Tutto viene catalizzato dalla libertà, che sembra l’unica misura della felicità; tutto sembra gravido di un irrefrenabile ottimismo nel continuo contendersi un tempo favorevole per una vita eccezionale ma piena di rischi.
Di fronte a questi cambiamenti c’è l’uomo, con la sua coscienza e la sua responsabilità la quale non può esimersi di osservare la libertà, talvolta con rispetto, altre volte con sospetto, ma mai con devozione assoluta e tanto meno con sottomissione. In questo vorticoso avvicendarsi di creatività e di frustrazione, di energie liberate e di aggressività, di sicurezza e di insicurezza, la responsabilità è un elemento fondante la libertà.
E’ evidente che qualche sbavatura si è creata e si sta creando. In questo sistema dove l’individuo è posto al centro e l’uomo in disparte, la povertà mal si coniuga con la libertà, l’economia liberale funziona in condizioni privilegiate; il profitto esasperato non stringe la mano volentieri alla solidarietà, i sistemi democratici sembrano soffrire, il mondo del lavoro si sta chiedendo quale sarà il suo futuro. Se l’imperativo categorico è consumare, cioè smaltire beni per produrne altri, probabilmente si arriverà a consumare anche “beni” che non si possono produrre o riprodurre: le relazioni tra gli uomini, la felicità, la solidarietà, l’amicizia, la famiglia, la natura, la giustizia e l’ingiustizia, la fede e la vita stessa.

Democrazia: tra fondamenti e contraddizioni

La definizione di democrazia ha attraversato la storia, più o meno recente, con prove dure dalle quali sono emerse delle accezioni sempre più convincenti di questo termine o, per capire meglio, di questo sistema di governo che ora ci appartiene e del quale non vogliamo fare a meno soprattutto in un momento di incertezza nel quale i fondamenti acquisiti e consolidati, sembrano essere fragili.
In una realtà complessa e in continua trasformazione, comunque, l’emergere di quei valori che aiutano alla convivenza civile, alla pace, e alla democrazia stessa, hanno un risveglio che si scosta decisamente dalle inclinazioni che sembrano annacquarli. Certo, recuperare il senso della democrazia è fondamentale per evitare inutili confusioni. Essa non è un dato di fatto, ma va conquistata, rinnovata, richiamata nei fondamenti attraverso la partecipazione dei cittadini, del popolo sovrano. E la partecipazione, tra l’altro, non è un elemento aggiuntivo della democrazia, ma ne è un fondamento costitutivo. Dobbiamo dire, però, che, purtroppo, per molti motivi, sembra che la partecipazione politica sia diminuita e con essa anche l’interesse per la stessa. Forse i cittadini pensano che i loro bisogni vengano soddisfatti grazie alla libertà di mercato. Diciamo che si crea la democrazia scarsa che pian piano viene svuotata dal suo senso ultimo che è quello di operare per la soddisfazione dei bisogni degli uomini e garantire la dignità della persona sovrastata dall’imperativo economico.
Volendo precisare in maniera più chiara che cosa sia la democrazia, si può aggiungere che essa è, come dice A.Sen, il “governo attraverso la discussione”, cioè quel dialogo costante tra le istituzioni e i cittadini e tra chi governa e chi sta all’opposizione, fatto di mediazioni e che solo è in grado di arrivare a sintesi costruttive. Immaginiamo che tutto ciò vada ben oltre il mero risultato dell’urna elettorale: esso non può essere la legittimazione di un potere, bensì di una responsabilità. Evitando la discussione come principio necessario per deliberare leggi il più possibile adeguate alla realizzazione del bene comune e alla buona convivenza tra i cittadini, si scadrebbe nella difesa delle posizioni elettoralmente e democraticamente acquisite senza realizzare, però, una democrazia nel senso completo del termine.
A tal proposito, mi sembra opportuno citare Amartya Sen, premio nobel per l’economia nel 1998, che con chiarezza ci fa capire l’importanza della democrazia, il valore e le esigenze:
Che cos’è esattamente la democrazia? Innanzitutto occorre evitare l’identificazione fra democrazia e governo della maggioranza. La democrazia ha esigenze complesse, fra cui, naturalmente, lo svolgimento di elezioni e l’accettazione del loro risultato, ma richiedendo inoltre la protezione dei diritti e delle libertà, il rispetto della legalità, nonché la garanzia di libere discussioni e di una circolazione senza censura delle notizie.(…) La democrazia è un sistema che esige impegno costante, e non un semplice meccanismo (come il governo della maggioranza), indipendente e isolato da tutto il resto. (A.Sen, La democrazia degli altri, ed. Mondatori, 2004, pp. 61-62)
Per aggiungere ancora una ulteriore precisazione, che aiuta a capire come la discussione, comunque, non può essere fine a se stessa, soprattutto per il cristiano che fa parte della comunità politica ed ha delle responsabilità in essa, ci affidiamo a quanto scrive Mario Toso: “La comunità politica non esiste solo perché gli uomini dialogano ed argomentano, ma perché la loro discussione o il loro contratto avvengono entro l’alveo di una comune ricerca del vero e del bene, la quale dipende dalla natura umana creata e redenta, che si attua in termini di libertà e responsabilità”. (M.Toso, La Società, n. 1/2005, p. 33)
La democrazia, come abbiamo visto, non è un assoluto, anzi. E’ qualcosa di estremamente relativo, in continua formazione e trasformazione, non tanto nei fondamenti, quanto nel suo operare nei tempi, nei modi e nei luoghi più opportuni che via via incontra sul suo cammino. In un certo senso deve gestire l’onere e l’onore di governare, di promuovere idee e ideali senza per questo debbano diventare atti di fede. La democrazia è un esercizio faticoso e talvolta oscuro; mai però derivante da un carisma perché il rischio è di cadere nell’assolutismo. Possiamo anche dire che il relativismo in democrazia, non è una sorta di anarchia, bensì un incontro di valori che rispondono a una pluralità di opinioni e di esperienze. Il popolo ha il potere di decidere chi governa e chi sta all’opposizione e quindi ogni cittadino può, liberamente, sottolineo liberamente, esprimere la sua preferenza. Ha altresì il potere di cambiare la sua scelta con mezzi pacifici.
Purtroppo la democrazia, oggi, come si è già accennato, sta vivendo, anche nei grandi paesi storicamente guidati da governi democratici, una fase di transizione che Colin Crouch chiama “post democratica”. Le lobby economiche, con le loro campagne, dominano il potere democratico e in modo non infrequente, influenzano le scelte politiche dei cittadini. Le priorità egualitarie, caratteristiche di un sistema democratico che dovrebbe mirare alla redistribuzione della ricchezza, cominciano a segnare il passo. E coloro che hanno la responsabilità di governo sembra abbiano scarsa speranza nel limitare gli interessi dei vari potenti che via via si succedono soprattutto in un modello di società che è decisamente liberale, ma che non coincide con una forte democrazia.
Chi ne risente maggiormente di questa fase di transizione a causa di una situazione internazionale di difficoltà democratica, sono i paesi in via di sviluppo. Prima il pane e poi la democrazia potrebbe essere un imperativo per questi paesi. Però noi tutti sappiamo che tamponare le falle di sistemi economici poveri non aiuta a risolvere i problemi né tanto meno a instaurare la democrazia. Chi detiene dispoticamente il potere ha più interesse ad offrire un tozzo di pane piuttosto che la libertà che è sostanza per lo sviluppo. Spesso tutto ciò accade sotto il colpevole silenzio dei paesi democratici. Di fronte a ciò, le prospettive di forti movimenti migratori dal sud al nord del mondo sono chiare e, nel mondo globalizzato, tutto ciò è inarrestabile e apre a nuovi scenari di democrazia, di politiche economiche e del lavoro nei paesi di immigrazione.
Nei paesi occidentali si è dovuto sopportare i dolori di un travaglio molto lungo e complesso fatto di sofferenze e tragedie per arrivare a rivivere la politica, nel senso più alto del termine, quale ragione fondamentale della democrazia. Grandi uomini si sono caricati sulle spalle la responsabilità di far transitare il nostro paese, ma anche gli altri paesi europei, che erano stati condotti all’odio reciproco, a quel sistema che, finora, nonostante tutto, è l’unico ancora in grado, tra quelli conosciuti, di far progredire politicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente i paesi che lo adottano. Oggi però, nonostante siano state tolte di mezzo le ideologie, altri poteri subdoli e molto forti fanno concorrenza alla democrazia cercando di ridurla a semplice controllore o poliziotto di stato.
Certo, non possiamo solo tessere i giusti elogi alla democrazia, ma dobbiamo anche sottolineare che gli scenari che ci si presentano davanti sono nuovi e vanno affrontati con determinazione. E’ necessario, quindi, assicurasi il sistema democratico, ma rendere anche effettivamente operativa nella sua vera dimensione e grandezza la democrazia soprattutto in un contesto sociale e mondiale in continuo cambiamento. A margine però, purtroppo, si nascondono sorprese che si riflettono inesorabilmente sul vivere quotidiano prestando il fianco a interessi economici che di democratico hanno ben poco.
Quindi non è l’idea di democrazia che va messa in discussione, bensì un modello che segna il passo nel conseguire, di fronte e troppe ingerenze esterne, la piena realizzazione. Possiamo dire che si è costruito nel recente passato una democrazia per pochi, per un’élite di persone che appiattiscono la politica al mercato. Il semplice cittadino passa in subordine, tanto che le difficoltà economiche e sociali che le famiglie stanno vivendo anche in Italia vengono relegate più o meno a notizie di cronaca. E’ bene ricordare, comunque, che la politica, come dice ancora Mario Toso, non è una società d’affari.
Emergono continuamente elementi nuovi sia nazionali che internazionali che stimolano ad una maggiore riflessione su una ridefinizione della democrazia, cercando di capirla nelle sue varie accezioni e nelle sue modificazioni, ma anche nei suoi fondamenti. Per recuperare senso alla stessa cresce l’interesse per la fondamentale importanza della responsabilità degli stati, dell’economia, dei cittadini e delle istituzioni in genere soggetti trainati della democrazia. Una svolta? Un momento di debolezza? Una crisi profonda? Sono domande che non pretendono né prevedono risposte immediate, ma un inizio di percorso lungimirante, che richiede uno sforzo da parte di tutti coloro che fanno parte di questo sistema e che lo hanno a cuore.

Le incertezze fra economia e lavoro

La società postmoderna ha dovuto adeguarsi ad essere più consapevole dei rischi, dei dubbi, delle incertezze che i nuovi modelli sociali, economici e politici propongono. La mancanza di soluzioni uniche a infiniti problemi mettono l’individuo di fronte a responsabilità che prima non aveva. Le traiettorie contorte, le ambivalenze, le sofferenze morali ed economiche che continuamente la società contemporanea deve affrontare non hanno più ricette uniche. O meglio! L’uomo si trova da solo ad affrontare problemi dei quali molto spesso non è in grado nemmeno di capire; è un uomo che non può che fidarsi di se stesso diffidando del prossimo. Egli deve migliorarsi in un gioco continuo fatto di tensioni e ansie. E’ la competizione che si snoda in tutti gli ambiti dell’esistenza e in particolare dell’economia che avvolge come una ragnatela dalla quale sembra sempre più difficile districarsi. La competizione come giocare insieme diventa concorrenza, una gara continua e talvolta spietata. Tutto ciò si ripercuote in maniera drammatica sugli anelli deboli della società non in grado di rincorrere questi cambiamenti rimanendo inesorabilmente ai margini, con pochi sogni e nessuna speranza. E’ una società chiusa, fatta di diffidenza necessarie per proteggere il terreno conquistato da eventuali ede ipotetici invasori.

Probabilmente la saggezza dell’uomo, come scrive Bauman, nata dalla consapevolezza che egli ha della propria responsabilità nell’epoca postmoderna, riuscirà a ricucire gli enormi strappi che si sono creati nelle società occidentali o in quelle dei paesi meno sviluppati o sottosviluppati? Certamente è una sfida enorme, che si dovrà affrontare utilizzando gli strumenti più opportuni che emergeranno dalla ricerca dei valori necessari a non navigare a vista nell’oceano dell’incertezza. Incertezza che si riflette in tutte le pieghe della società: dalla famiglia, all’ambiente, al welfare, all’economia, al lavoro e che gravita in un individualismo talmente esasperato da far crescere, paradossalmente, la voglia di sacro, di trascendente, insomma di religione, che sembrava assopita nella confusione consumista. Una religione però, individualista, che tende a soddisfare un desiderio personale di sicurezza, di tranquillità piuttosto che aprirsi al Dio trascendente. L’uomo si crea una religione per gestire, ancora una volta autonomamente, le frustrazioni di un vuoto creatosi attorno a sé. Questa, come scrive ancora Bauman, gli promette una navigazione sicura tra gli scogli della solitudine e dell’impegno, tra il flagello dell’esclusione e la morsa d’acciaio di vincoli troppo stretti, tra un irreparabile distacco e un irrevocabile coinvolgimento (Z.Bauman, Amore Liquido, Laterza 2004)
In questo movimento vorticoso, la fa da padrone il sistema della rincorsa economica che si intromette prepotentemente in tutti i rivoli più nascosti della nostra esistenza. L’economia, infatti, è stato proprio uno dei temi trattati durante la settimana sociale dei cattolici a Bologna e anche durante i seminari preparatori. E’ un tema caro alla Dottrina Sociale della Chiesa sul quale più volte si è espressa cercando di offrire degli strumenti di approfondimento attraverso una lettura soprattutto valoriale toccando i vari elementi che lo compongono: mercato, impresa, profitto, bilanci, lavoro, diritti, uguaglianza, equità, ecc. .
E’ noto come il sistema del libero mercato abbia ormai assunto una tale forza da non conoscere rivali, anche perché l’unico rivale che aveva tentato di sostituirlo è miseramente fallito. Mi riferisco ovviamente al sistema collettivista. Se lasciassimo tutto così com’è , secondo quanto stabilito esclusivamente dalla libera concorrenza, non avrebbe neppure senso parlarne. Di fatto, però, gli scenari che si aprono di fronte a noi sono incredibilmente diversi tanto che i loro movimenti non riusciamo a percepirli.
Come sappiamo in questo modello economico che non conosce rivali, il profitto è l’obiettivo trainante, anzi l’obiettivo principale. Si può rilevare comunque che anche tra gli economisti il modo di pensare corra su binari completamente diversi. Da una parte un capitalismo che lascia al mercato senza vincoli la possibilità di autoregolarsi, premiando i migliori e lasciando inesorabilmente al palo gli altri. Una sorta di evoluzionismo economico-sociale. Dall’altre parte si dimostra (Sen, Stigliz, entrambi premi Nobel) la possibilità di un capitalismo meno autoritario, temperato da regole e solidarietà. Quest’ultimo, secondo i suoi estimatori risulta, nel medio periodo, molto più conveniente ed efficace. E per recuperare la riflessione molto stimolante di un pensatore e politico del nostro tempo, Jacques Delors, un’economia svincolata dal solo conseguimento di un interesse personale ma anche sostenuta da valori, deve avere queste tre caratteristiche: La competitività che stimola, la cooperazione che consolida, la solidarietà che unisce.
Il problema sorge nel momento in cui si parla di eguaglianza delle opportunità da offrire a coloro che sono ai margini del sistema, che non hanno la possibilità di salire sul treno della concorrenza e della competizione; che non possono godere di quegli strumenti fondamentali di crescita e sviluppo. Certo, l’economia deve obbligatoriamente creare ricchezza, in termini non soltanto quantitativi, ma anche qualitativi: tutto ciò è moralmente corretto se finalizzato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società in cui vive e opera (Compendio DSC n. 334).E’ purtroppo evidente, comunque, che le opportunità che possono essere offerte dal sistema ad economia di mercato diventano marginali dal momento in cui in molti non hanno la possibilità di accedervi.

Il lavoro quale strumento di democrazia

Oggi si confonde spesso, come diceva Hanna Arendt, la vita activa, cioè la vita dell’uomo come crescita completa, con il lavoro. L’uomo è colui che lavora, è in relazione, vive una quotidianità e non è innanzitutto lavoratore.
Tutti conosciamo l’arti 1 della nostra Costituzione: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Dal dopoguerra ad oggi i passi sono stati molti e diversi per quanto riguarda lo sviluppo di questo fondamento costituzionale. Fino a non moltissimi anni fa la vita era scandita da suoni e rintocchi: per chi lavorava in fabbrica dal suono della sirena, mentre per chi lavorava nei campi da quello delle campane. La vita era racchiusa in ritmi costanti che accompagnavano per tutta l’esistenza. Tanto che si può dire che il matrimonio era anche col posto di lavoro. A vita. E non infrequentemente questo si tramandava di padre in figlio per molte generazioni.
L’economia aveva ritmi diversi e il movimento delle merci non aveva la velocità che ora, non solo ha, ma necessariamente deve avere. All’economia, cadenzata da tempi ben definiti, si affiancava quel movimento di uomini che cercavano di migliorare l’esistenza propria e della propria famiglia emigrando verso quei paesi che offrivano maggiori opportunità. Oggi il movimento ha i medesimi obiettivi, ma va verso un’altra direzione: viene verso i paesi degli ex emigranti trovando difficoltà, suscitando non pochi sospetti, ma anche accoglienza e integrazione. Esiste anche un’altra forma di migrazione, sempre più frequente: quella tra un posto di lavoro e un altro, tra una professione e un’altra.
Il cambiamento è iniziato con la forza propulsiva della globalizzazione che ha creato enormi opportunità ma anche incertezza, precarietà: è subentrata la paura. Di fatto tutto diventa instabile anche perché non ha il tempo di piantare radici. Anzi, piantare radici è, nel contesto socio-economico attuale, proprio controproducente. Il lavoro è entrato in un mercato: c’è chi offre lavoro e chi risponde con la propria disponibilità e professionalità. Una serie infinita di variabili fanno sì che spesso il punto d’incontro tra chi offre lavoro e chi presta lavoro non sempre è lo stesso. Entrambi hanno la continua necessità di rimodellarsi sulla base delle trasformazioni che questo nuovo modello propone. Il lavoro cambia e con esso il posto di lavoro che non è più da ricercare sotto casa. Il sistema globalizzato ha bisogno di persone disponibili a spostarsi, a cambiare e ricambiare completamente modo di vivere, amicizie, abitazioni per essere praticamente sempre in viaggio nell’economia globale.
Il fatto è però, che il lavoro offerto non corrisponde più ad un lavoro che rimarrà tale nel tempo e il posto di lavoro che si andrà ad occupare sarà anch’esso in movimento perché lo stesso posto di lavoro potrà essere occupato da più persone in tempi diversi e con la medesima professionalità. Di fatto il lavoro è un lavoro flessibile e chi offre la sua prestazione può essere riciclato fino alla definitiva usura. Colui che si pone sul mercato del lavoro, soprattutto se giovane, si sente come una piccola pianta in crescita, come un pellegrino che si volge verso la meta, ma continua a camminare senza sapere, però, se arriverà al posto di ristoro successivo.
Il termine flessibile si riferisce ai rami dell’albero che, piegati dal vento, poi, data la loro robustezza, ritornano al loro posto. Essi resistono nonostante i continui e pesanti scossoni. Idealmente la flessibilità è sapersi adattare alle varie circostanze senza farsi spezzare. Quindi è necessario essere straordinariamente duttili e adattabili; chiudere gli occhi di fronte agli eventuali sogni che i genitori avevano per i figli cercando di affrontare il sistema senza farsi stritolare. La domanda da porsi, comunque, è sempre quella di Pico della Mirandola: Come dovrei forgiare la mia vita?
In questa continua corsa ad ostacoli bisogna sradicarsi e sgravarsi di inutili zavorre troppo rigide che farebbero inciampare durante il cammino creando quelle fratture che potrebbero spostarti fuori dallo stesso mercato del lavoro. Così facendo ci si allontanerebbe dalla via cosiddetta maestra della flessibilità, unico strumento attuale per tentare una possibile lettura del proprio futuro senza pensare ad una meta costituita dalla tranquillità lavorativa e sociale.
Tutto ciò crea un impatto sociale ed economico che si ripercuote nelle singole persone e sulla loro qualità di vita. E’ la necessità di assumersi, più che delle responsabilità, dei rischi, che pesano sulla quotidianità, soprattutto delle giovani generazioni. I giovani, infatti, vengono considerati più malleabili nell’assunzione di rischi e di immediata sottomissione, e sono, quasi naturalmente, i più propensi al cambiamento e alle modifiche in “corso d’opera”. Ma com’è possibile progettare a lungo termine quando l’economia ruota attorno al breve periodo se non dell’immediato?
E’ importante capire da dove derivi, soprattutto in Italia, la questione della flessibilità nel lavoro. Ha visto la luce verso gli anni ’80 quando le ragioni della politica si mescolavano a quelle economiche e il modello americano cominciava ad approdare nel nostro paese. Ci si pone il problema della protezione del posto di lavoro e dei lavoratori, che finora è stata uno dei capisaldi del nostro sistema economico e allo stesso tempo di proporre l’introduzione di un modello meno protetto e quindi, necessariamente più flessibile, per ridurre la cronica disoccupazione sempre più elevata. Nascono, tra gli anni ’80 e ’90, quei contratti che modificheranno radicalmente il concetto precedente di contratto e vengono chiamati: Formazione lavoro, Interinale, CO.CO.CO. (oggi Contratto a Progetto), apprendistato; nasce anche il popolo della partita IVA. Nascono anche nuove modalità di lavoro: telelavoro, part time di fine settimana, ecc.. Molto più recentemente, con la famosa legge Biagi, vengono immessi nel mercato nuovi formulari e nuove forme contrattuali: Nuovo Apprendistato, Contratti di formazione e tirocinio, Lavoro a tempo parziale, Lavoro a chiamata, Lavoro temporaneo, Lavoro occasionale, Lavoro accessorio e a prestazioni ripartite (job sharing). Certo un numero notevole di possibilità e di opportunità che il mercato del lavoro può offrire e che velocemente molte aziende hanno messo in pratica per necessità e convenienza, creando una flessibilità e una conseguente precarietà che può stordire ma che, talvolta, può essere considerata anche uno strumento positivo. Pensiamo per esempio alla possibilità di coniugare famiglia e lavoro, di essere maggiormente liberi senza nessun vincolo, di partecipare a molteplici progetti attraverso varie esperienze lavorative e di vita.
Il problema è capire quanti confini sarà necessario superare per riuscire a garantirsi una minore insicurezza lavorativa, retributiva, sociale e familiare. La precarietà, frutto maturo della flessibilità, porta allo spreco, oltre che di professionalità acquisite nel tempo, anche delle possibilità di realizzare se stessi in ambito sociale, affettivo e familiare. Si produrranno, in modo sempre più evidente, delle disuguaglianza tra chi gode di un posto di lavoro a tempo indeterminato e chi sarà cronicamente un lavoratore atipico. Orientarsi in un mercato sempre meno chiaro e risucchiato in un vortice di insicurezza, è quanto mai complicato, anche perché, tra l’altro, non sempre la disponibilità di posti di lavoro corrisponde alla professionalità di domanda-lavoro. E’ a rischio, nonostante l’esaltazione della flessibilità che riduce la disoccupazione (anche i disoccupati?) anche la costruzione della propria personalità, soprattutto tra i giovani. La precarietà oggettiva crea frustrazione e, non infrequentemente, poca stima di sé.
Come già prima si accennava, si possono trovare anche degli aspetti positivi nella flessibilità, soprattutto tra i giovani: pensiamo, per esempio alla possibilità di accesso al lavoro in maniera più dinamica e graduale; pensiamo a chi ama la libertà nel lavoro senza essere troppo vincolato e quindi potersi spostare autonomamente adattandosi in modo meno rigido alle varie situazione che via via si presentano. Certo è che non si può investire nel futuro perché la flessibilità si consolida e l’attesa per una stabilità nel futuro delle grandi scelte risulta complessa e sempre più lontana nel tempo.
Il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo, troviamo scritto nella Laborem Exercens. Ma se il lavoro è veramente il bene dell’uomo, cosa può offrire la precarietà flessibile? E’ evidente che gli scossoni ricevuti dalla perdita di orientamento mettono in crisi anche il riconoscimento del bene dell’uomo. Diciamo che oggi, nel sistema flessibile, l’uomo è un accessorio che viene utilizzato alla bisogna anche se indispensabile.
La flessibilità è un dato, una necessità più che una scelta alla quale, soprattutto i giovani, come dicevamo, ma non solo, purtroppo, non possono sottrarsi. Ciò che prima era esperienza consolidata ora è sempre qualcosa di temporaneo, senza radice. L’esperienza è un azzardo, come un gioco nel quale ci si muove velocemente e che non ammette tempo per pensare; bisogna correre quando si viene chiamati pena rimanere inesorabilmente tagliati fuori. Richard Sennet scrive che La preoccupazione è l’ansia per quello che può avvenire, e si produce in un clima in cui viene esaltato il rischio costante e in cui sembra che le esperienze passate non possano più servire da guida per il presente (R.Sennet, L’uomo Flessibile, ed. Feltrinelli). Quest’ansia continua, può svuotare e far arrivare il lavoratore precario a capire che anche l’assunzione di responsabilità nei confronti di se stesso e della realtà in cui vive è cambiata: è diventata anch’essa più flessibile.
Quale futuro si prospetta per i giovani che entrano ora nel mondo del lavoro? Quale futuro per chi, di media età, è uscito dal mondo del lavoro nel senso che è troppo “anziano” per essere riassorbito senza un’alta qualifica professionale? Per questi ci sono solo pregiudizi nel mercato del lavoro in quanto troppo refrattari ai rischi e quindi si può arrivare anche a negare la loro esperienza. Quale futuro per le donne nel loro dividersi tra casa e occupazione esterna? Che ne sarà degli immigrati? Probabilmente oltre ad essere flessibile e dopo aver delocalizzato il lavoro ci si dovrà delocalizzare come lavoratori se spostandosi velocemente per recuperare contratti anche se poco appetibili professionalmente ed economicamente e quindi riuscire a soddisfare le necessità dalle quali, nonostante le incertezze, non si può prescindere e che concorrono a realizzare la propria dignità umana: una possibile famiglia, una probabile abitazione, forse una vecchiaia meno incerta. Si dovrà diventare dei turisti del posto di lavoro. Ma per il momento anche tutto ciò rimane estremamente incerto.
Una regolamentazione della flessibilità è auspicabile sia dal punto di vista organizzativo che del riconoscimento delle professionalità. Esse sono importanti per l’azienda come lo sono per il lavoratore. Importante anche una continua riqualificazione senza disperdere il patrimonio acquisito dovendo modificarsi per poter sopravvivere. Non ultimo, per chi non è più in grado di rientrare nel mercato del lavoro, vuoi per età, vuoi per scarsa professionalità, vuoi per congetture di tipo economico nazionale e internazionale, la costituzione di nuovi ammortizzatori sociali potrebbe essere un sistema di minor insicurezza.
E’ opportuno ricordare che, in molte democrazie e in particolare quella italiana, la visione lungimirante dei progetti di politica economica e, ovviamente, di politiche per il lavoro e l’occupazione, sono distratti da progetti a medio termine. Questo perché esiste, più che una predisposizione di norme utili allo sviluppo, la necessità di operare per le prossime elezioni. Le generazioni future, pertanto, possono rimanere impantanate nelle sabbie mobili di una politica di sviluppo miope se non cieca. Gli interessi lontani sono nascosti dalla speranza di vincere le elezioni. Pertanto il sostegno alle realtà deboli del sistema diventa sempre più difficoltoso e forse sempre meno remunerativo dal punto di vista elettorale in una prospettiva di economia elitaria e non diffusa sostenuta da una politica praticamente elettoralistica. (S.Zamagni, 44^ Settimana Sociale dei Cattolici, Bologna 2004).

Conclusione

La domanda che sembra ovvia a conclusione di queste riflessione è: che fine farà il lavoratore nel nostro sistema democratico? O forse: si potrà parlare ancora di garanzie all’uomo flessibile? Il compendio della Dottrina sociale della Chiesa al n. 314 parla di un universo di lavori variegato, fluido, ricco di promesse ma anche di interrogativi preoccupanti, specie di fronte alla crescente insicurezza circa le prospettive occupazionali. La competizione, le innovazioni tecnologiche e la gestione dei flussi finanziari vanno armonizzate con la difesa del lavoratore e dei suoi diritti. Ma esisteranno ancora in futuro i lavoratori dipendenti? Sarà l’uomo misura e regola del lavoro o sarà assorbito dal lavoro cessando di essere uomo? Le prospettive sono aperte, molte volte inquietanti. Si naviga a vista nel mare mosso. Un’opera di ricostruzione del sistema lavoro in prospettiva futura è necessaria soprattutto in un sistema democratico che ha bisogno, anch’esso, di ritocchi profondi e non solo di un maquillage passeggero.

BIBLIOGRAFIA

Z.Bauman, La società dell’incertezza, ed. Il Mulino, Bologna 1999.
Z.Bauman, L’amore liquido, ed. Laterza, Roma-Bari 2004.
J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, ed. Feltrinelli, Milano 2004.
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Ed. Vaticana 2004
A.Sen, La democrazia degli altri, ed. Mondadori, Milano 2004
R.Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, ed. Feltrinelli, Milano 2000.
.

LAICITA' - In dialogo tra sordi: ascoltiamoci -

di Nereo Tiso
Un vecchio rabbino raccontava questa storia: “Un giorno un sordo entra in un teatro e vede sopra il palco delle persone con degli oggetti in mano che facevano dei gesti strani: sembravano tutti pazzi. Ammettiamo - diceva ancora il rabbino – che il sordo, come per miracolo, cominciasse a sentire. Scoprirebbe la meraviglia della musica e che tutti i gesti che prima considerava da pazzi, ora hanno un senso per far uscire dagli oggetti stessi, una meravigliosa armonia”. Sarà possibile che ci si possa trovare, pur avendo strumenti diversi, provenienze diverse, a suonare uno spartito che tutti possono capire per creare con voci diverse un’unica armonia? E’ una bella domanda che spesso ci si pone e che, sfiorando giornali, riviste, volumi e leggendo opinioni rimane, purtroppo, delusa.
A partire da questo breve racconto affronteremo, per quanto ci sarà possibile, un argomento delicato, gravido di contraddizioni, di contrasti e, non infrequentemente, di superficialità lessicali. L’argomento che cercheremo in qualche modo di approfondire sarà quello che comunemente viene definito come Laicità. Analizzeremo il tema ripercorrendone vari aspetti utili a fare maggiore chiarezza. Ma andiamo per ordine: saranno analizzati i termini laico, laicità, laicato e laicismo.
Innanzitutto andiamo a vedere qual è l’origine etimologica del termine laico. Ci si può riferire alle origini greche del termine, cioè a laikòs, che definisce l’appartenenza ad una comunità di persone, ad un popolo in contrapposizione all’ekklesiaticòs. In sostanza il termine “laico” indica il popolo nella sua globalità di soggetti particolari, prima di tutte le specificazioni che pure esistono; è espressione del popolo senza sovrastrutture o imposizioni; ciò che nasce dal basso come dinamica sociale, culturale e anche religiosa. Come tale è contrapposto a potere, a struttura, a ideologia, a gerarchia. Si evince quindi, che già fin dagli albori con “laico” si indicava una contrapposizione, un’indicazione di appartenenza diversa; il riconoscersi come appartenente al popolo piuttosto che ad una chiesa. Un popolo che in sé ha le sue molteplicità di pensiero, di credenza religiosa e culturale, di classe sociale e posizione politica, una sorta di pluralismo delle differenze. E ancora, “laico” come derivante da laós, popolo; “laico”, quindi è colui che appartiene al popolo e non appartiene al clero. Non una mancanza, un handicap, uno stato negativo come qualcuno sottolinea, bensì un’altra appartenenza, quella al popolo, appunto.
Non si può dimenticare come anche nell’Antico Testamento il termine laós riferito a popolo, ricorra moltissime volte. E’ un termine familiare che indica la filiazione tra Dio e il suo popolo, il suo laós con il quale ha stabilito un patto e, in funzione di questo patto, il popolo è tenuto a rispettare le leggi (comandamenti) assegnate. Anche nel Nuovo Testamento il termine laico si riferisce al popolo, anzi al popolo nuovo. Ma il termine si trova anche nei Padri della Chiesa, agli albori quindi dell’esperienza cristiana. Questa sarà, in un certo senso, una nuova struttura di “laico”, anzi, un nuovo modo di essere laico andando a formare il popolo successivamente denominato laicato.
Nell’epoca dell’illuminismo, poi, il termine “laico” subirà un’ulteriore evoluzione: l’illuminismo infatti sancirà il divorzio tra la fede e la ragione e, di conseguenza, l’esaltazione della ragione a “divinità” a scapito della fede. Dopo la Rivoluzione francese, in alcuni paesi Europei, “laico” divenne simbolo di modernizzazione della società in contrapposizione al conservatorismo politico che aveva come componente fondamentale “l’oscurantismo clericale”. Sul versante sociale ora, “laico” indica colui che rifiuta la fede in quanto espressione di irrazionalità.
Ma andiamo ora a capire il card. Angelo Scola, patriarca di Venezia, come nel suo recente libro Una nuova laicità, abbia contribuito a districare la matassa delle definizioni attraverso la costruzione di un rapporto tra stato “laico” e i valori fondanti la società nella quale si trova ad esercitare i suoi poteri. Dunque quando si parla di stato laico, per il card . Scola, si pensa all’”esercizio costitutivo e reciproco di promozione e tutela del diritto e di positiva valorizzazione ti tutti i soggetti in campo, mediante il coinvolgimento nella relazione di riconoscimento”. Un continuo e reciproco riconoscimento e una valorizzazione di tutti coloro che sono parte integrante dello stato. In sostanza, lo stato “laico” è lo stato garante dei diritti a tutela di tutti i cittadini evitando conflitti che inficerebbero la reciprocità costruttiva e ne garantisce la libertà e la possibilità di espressione.
Se da una parte Scola investe di responsabilità soprattutto lo stato “laico”, da un’altra parte Gian Enrico Rusconi parla di una” natura umana laica” e che il criterio base per essere considerato “laico” è “l’autonoma determinazione da parte dell’individuo delle norme di comportamento morale e quindi della loro istituzionalizzazione, in vista della creazione di un ethos pubblico”(G.E.Rusconi, Non abusare di Dio, Rizzoli). In sostanza un’autonomia della coscienza da parte del soggetto che interpella solo se stessa e non un’autorità esterna ad essa che le indichi dei codici di comportamento. .
Come si è visto, dunque, non esiste univocità di espressione nel definire chi è da considerarsi laico perché l’esperienza, le proprie convinzioni religiose o meno, condizionano il modo con cui ognuno riconosce chi può considerarsi laico oppure no. Sta di fatto, comunque, che ognuno si tiene bene stretta la propria convinzione e autodefinendosi “laico”, chi in un modo, chi in un altro, elabora un proprio pensiero per una laicità propria o condivisa. Ed ecco quindi riconoscersi i laici non credenti, anticlericali, religiosamente indifferenti, laici cristiani, politici laici, laici secondo la Costituzione e via dicendo. Tutti che in qualche modo esprimono una forma personale dell’essere laico ma che, di fatto, appartengono al laòs, cioè a quel popolo che vede nella pluralità dei soggetti la sua stessa esistenza e la sua stessa essenza democratica. Possiamo dire, forse senza approssimazione, che gli unici non-laici sono coloro che hanno espresso voti religiosi o sono stati consacrati; in sostanza tutti coloro che appartengono al clero secolare e agli ordini religiosi sia maschili che femminili.
A questo punto si può affermare che nessuno possa portare la bandiera del “vero laico” e nemmeno possa dire: “Laico”! C’est moi! O meglio, possa dire che l’altro non lo è perché le sue caratteristiche di fede o di pensiero glielo impediscono. Il problema, pertanto, non sta a monte, bensì a valle, cioè nella laicità, nel modo di esprimersi del “laico” appunto, ciò che differenzia l’essere “laico” in un modo piuttosto che in un altro. Pertanto le contrapposizioni che negli ultimi tempi emergono sempre più evidenti tra “laici” e cattolici, tra laici e clericali, non hanno, in via di principio, motivo di esistere, soprattutto perché tutti appartengono al popolo, ma hanno visioni diverse della realtà e quindi vivono una laicità diversa che nasce dall’esperienza di ognuno, dalla storia dall’educazione , infine dalle convinzioni di fede o meno a cui ci si sente di appartenere. Quindi siamo, a questo punto, nell’aspetto più ampio della laicità, croce e delizia del dialogo e del non infrequente “scontro tra le parti”.
Anche il concetto di laicità, varia nel tempo e le sue definizioni si danno nel contesto socio-culturale ed economico nel quale la stessa laicità viene definita. La laicità può essere vista come razionalità, esercizio della ragione, o come sinonimo di non credenza tanto da formulare diversi percorsi etici: da una parte non si nega, in senso prettamente laico, il rapporto tra etica e religione; dall’altro si arriva, sempre laicamente, a rifiutare qualsiasi influsso di tipo religioso.
Il concetto di “sana laicità” espresso da papa Benedetto XVI viene ritenuto da molti una ingerenza della Chiesa che vuole “guidare” il senso stesso della laicità , indicando quali dovrebbero essere i criteri per esprimere, anche da parte dello Stato, un’indicazione di laicità appunto. Ma ci può essere un altro concetto di sana laicità quale “casa ovunque vi è la ricerca comunque del bene di tutti, senza prevaricazione, senza assolutismi o relativismi ideologici” (E. Genre, Laicità, religioni e formazione: una sfida epocale, ed. Carocci) che, a ben vedere, non ha nulla di diverso dall’affermazione precedente, ma che viene espressa partendo da presupposti diversi. Il problema è capire come le “sane laicità” possano convergere, fare sintesi o, almeno, riconoscere la reciproca diversità.
Essere laici quindi, è accettare le istanze dell’altro che non è un avversario, bensì un Altro da me con il quale entrare in dialogo, sia esso religioso o non religioso, credente o non credente. Una laicità anticlericale, antireligiosa, possiamo dire che è una curiosa laicità, nel senso che non accetta che nella società possano esistere le religioni o i fenomeni religiosi che sono costitutivi dello Stato stesso. Stato, tra l’altro, che deve essere imparziale ma non neutrale di fronte a scelte di vita differenti; di fronte a chi ha una fede come propria condizione esistenziale e a chi non ne ha nessuna. Quindi, lo Stato non sarà indifferente nei confronti delle tradizioni religiose, ma saprà mettersi in loro ascolto recuperando i valori di cui sono portatrici. Valori, che per alcune istituzioni in Italia, quale la Chiesa cattolica ma anche altre fedi, sono ancora riconosciuti importanti dai fedeli e che non lasciano nell’indifferenza nemmeno coloro che hanno fatto la scelta di laico non credente.
Quando invece si parla di laicato (cattolico) si indica solitamente quella parte della comunità dei credenti che si occupa delle cose del mondo, e orienta la propria esistenza avendo come guida il Vangelo, l’insegnamento della Chiesa e la propria coscienza. Il laicato è costituito da coloro che vengono coinvolti in percorsi formativi e di fede di vario genere: dalle associazioni ecclesiali, ai movimenti, dai gruppi di volontariato nazionale e internazionale, alle parrocchie. In sostanza, il laicato “cattolico” attraverso la sua formazione ecclesiale, arriva all’età adulta in grado di poter scegliere responsabilmente di impegnarsi direttamente nei vari movimenti o associazioni ecclesiali o nella politica attiva cercando la realizzazione del bene comune; da laico. Sembra chiaro come il laico cattolico abbia il compito di essere attore della propria e dell’altrui storia secondo le proprie aspirazioni, le proprie competenze e le proprie esperienze oltre che le convinzioni che lo guidano. Qui sta il compito del laico cattolico: dovrà cooperare con gli altri cittadini, nel rispetto reciproco delle posizioni ideali oltre che confrontarsi all’interno del proprio mondo nella quale si ritrovano opinioni diverse di società, di approccio alla solidarietà, di visione di valori comuni. Non a caso ci sono laici cattolici che militano o simpatizzano per schieramenti politici opposti. E quando si parla di opposti significa anche che, su determinati valori sensibili, che fanno emergere problemi etici non di poco conto, anche tra i laici cattolici le diversità divengono, non infrequentemente, dei fossati ideologici, strumentali e strumentalizzabili. Si mostra così che l’appiattimento delle coscienze su situazioni e scelte che per i cattolici potrebbero sembrare “naturalmente comuni” o, più banalmente, ovvie, lasciano spazio più che al dialogo costruttivo, alla vivace discussione e, spesso, allo scontro politico. Anche se i valori rimangono comuni, condivisi, sono le premesse ideologiche (ideali?), partitiche e di schieramento, piuttosto che di fede che creano i maggiori problemi e le maggiori divisioni. E’ da rilevare come oggi il laicato cattolico cominci ad indirizzarsi verso il volontariato abbandonando la prassi dell’impegno nella politica considerato “uno dei più alti valori della carità” (Paolo VI). Probabilmente il disinnamoramento per la politica ha contagiato anche il mondo cattolico, che trova altre espressioni di impegno e lascia ad altri la responsabilità delle scelte. Non solo, probabilmente, un laicato adulto, sente anche il peso di dover affrontare questioni che riguardano la sua coscienza di credente che può cozzare contro quella di essere impegnato in scelte che riguardano tutti, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici. Quindi sente di dover affrontare un terreno che lo trova non spesso impreparato. Affrontare argomenti in maniera impegnativa ascoltando anche le ragioni dell’altro e cercando di giustificare le proprie, non è facile e, quindi, si delega.
Ultimo aspetto è il significato di laicismo (termine, per alcuni, sinonimo di laicità). Esso può essere considerato come una dottrina socio-politica che teorizza e sostiene la totale separazione tra stato e Chiesa, e quindi l'assenza di interferenze religiose dirette nell'ambito legislativo, esecutivo e giudiziario di uno stato. Il laicismo teorizza il progressivo declino dell'importanza della fede religiosa nella vita di tutti i giorni. Se lo Stato sostituisse la categoria di laicità con quella di laicismo, verrebbe a mancare l’equidistanza necessaria allo Stato stesso per com-prendere tutti i cittadini che decidono di appartenere ad una religione, a un credo filosofico o semplicemente di sentirsi parte dello Stato stesso sottomettendosi alle sue leggi senza alcun credo sia filosofico che religioso. Pertanto se lo Stato assumesse il laicismo come principio di convivenza si arriverebbe anche ad una restrizione del dialogo tra cittadini incompatibile col pluralismo che dovrebbe difendere. L’imparzialità dello Stato, secondo i principi di giustizia e di pluralismo, deve tener conto necessariamente delle diverse componenti, anche religiose, che vivono sul suo territorio senza, ovviamente, abdicare ai propri principi e negare quelli appartenenti ad ognuna di queste componenti. Per evitare inutili irrigidimenti, il dialogo dovrà essere aperto alla comprensione dell’altro, anzi, delle ragioni dell’altro. Tutte le ragioni, le possibilità e opportunità di dialogo devono quindi essere garantite dallo Stato, se non sollecitate per la reciproca comprensione, soprattutto quando si tratta di questioni di “principio” e non di fede, di convivenza civile e non di dogmatismi fuorvianti che impediscono il dialogo stesso.
Queste poche righe non hanno la pretesa di esaurire la riflessione, anche perché la bibliografia è imponente. Vogliono essere solamente un tentativo di capire un po’ di più cercando il confronto costruttivo e il rispetto reciproco in quanto appartenenti ad esperienze diverse. Gesti di apertura da tutte le parti, possono aprire momenti di condivisione di fronte a situazioni difficili alle quali si arriva dopo aver chiuso porte e finestre. Lasciare passare l’aria è segno di vitalità; è la democrazia che respira a pieni polmoni.

domenica 25 novembre 2007

Sebastiano Schiavon - Lo strapazzasiori -

Massimo Toffanin, Sebastiano Schiavon: Lo strapazzasiori, ed. "La Garangola"

Sebastiano Schiavon, leader cattolico con una vita breve (1883-1922), intensa e sfortunata, infiammò il padovano con la sua azione sociale all'inizio del '900. Proveniva da una famiglia modesta; si laureò a fatica e divenne dirigente cattolico. Fu consigliere comunale in alcuni municipi della provincia padovana e consiliere provinciale fino ad essere eletto a suffragio universale nel cittadellese (provincia di Padova) nel 1913 col 90% dei suffragi. Fu il deputato più giovane e più votato d'Italia. Si oppose all'entrata in guerra dell'Italia nel 1918; votò contro i pieni poteri al governo Salandra. Dopo la prima guerra mondiale aderì al Partito Popolare riuscendo ad essere eletto anche nel 1919, ma due anni dopo, non fu ricandidato dal suo partito. Così ebbe termine la sua carriera politica e di lì a poco, dopo una breve ma fulminante malattia, terminò anche la sua esistenza. Era il 30 gennaio 1922.

Sebastiano Schiavon - Cattolico e politico -
I fermenti della
Dottrina Sociale della Chiesa
fine ‘800 inizi ‘900
di Nereo Tiso

Introduzione

Non v’è dubbio che i rapporti tra Chiesa e politica, tra fede e politica siano sempre stati di “dualismo convergente”. Tra l’altro, oggi, con lo strapotere dei media che non aiutano al discernimento, questi rapporti sembrano sempre più in movimento, “attivi”, non sempre sereni. Possiamo ricordare le formule giornalistiche per definire quanti tra i politici e per vari motivi, si trovano ad avere rapporti diversi e diversificati con la Chiesa: c’è chi è pronto a difendere la tradizione popolare cristiana e i grandi valori che da sempre la Chiesa propone e difende , senza passare attraverso un percorso di fede e anzi, talvolta scontrandosi con la Chiesa stessa; c’è chi difende in maniera plateale la propria fede o, per altre ragioni, le proprie tradizioni, contro invasori più o meno reali; c’è chi viene ritenuto troppo clericale in politica e invece, qualche altro, anticlericale; e ancora c’è qualcuno, forse troppo devoto all’autorità ecclesiastica con fini non sempre nobili. Possiamo dire che il panorama è vasto.
Ma penso, prima di richiamarmi alla storia e all’oggetto di questa nostra discussione, che sia interessante sottolineare alcuni importanti documenti per capire qual è il ruolo della Chiesa e della Dottrina Sociale e il suo rapporto con la politica. Dapprima dobbiamo far riferimento all’importante documento del Concilio Vaticano II, la Costituzione Gaudium et Spes, che chiarisce il ruolo della Chiesa nei confronti della Politica: La Chiesa, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica GS 76; e poi, lo stesso documento al n. 75, sottolinea quale dovrebbe essere il ruolo del cristiano che si impegna in politica e che si assume responsabilità personali per la realizzazione del bene comune: Tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica .
Anzi, il cristiano deve essere cosciente della sua vocazione all’interno della comunità politica dando esempio di dedizione alla realizzazione del bene comune. Questo non significa ingerenza della Chiesa nelle decisioni che spettano alla Politica e solo alla Politica, ma il riconoscimento dell’indipendenza della stessa dalla comunità politica. Ciò non toglie, come scrive ancora la GS N76, che la Chiesa ritenga suo diritto “…dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine pubblico, quando questo sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime…”.
E’ bene richiamare, se pur per cenni, anche un altro documento più recente, la Centesimus annus nella quale papa Giovanni Paolo II, riconosce a chiare lettere l’importanza della democrazia, non solo come sistema di governo, ma in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e offre la possibilità di sostituire i governanti pacificamente. Ma il papa sottolinea che “un’autentica democrazia è possibile solo in uno stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana”.
In questa enciclica, tra l’altro, viene richiamata più volte la prima enciclica sociale, Rerum Novarum, che possiamo dire sia stata il fondamento dottrinale e valoriale dell’azione del nostro protagonista, Sebastiano Schiavon nei primi anni del ‘900. Anche il sottotitolo di questa enciclica è molto chiaro: “sulla Questione Operaia”. L’enciclica in questione fu un documento rivoluzionario per il tempo, che trasmise ai cristiani, ma non solo, dopo un’assenza forzata dalla vita pubblica, un entusiasmo contagioso tra chi sentiva il messaggio evangelico veicolato da Papa Leone XIII, autore dell’enciclica, rivelarsi in tutta la sua profondità e chiarezza: l’attenzione per i poveri, i diseredati e le situazioni sociali, economiche e politiche del tempo.


Il periodo della Rerum Novarum

Il periodo antecedente alla Rerum Novarum fu un momento molto importante e delicato per la Chiesa che, dopo la questione romana che aveva ridotto, non solo i territori ma anche la sua influenza sulle classi sociali, cominciava a dare una diversa lettura della realtà . Essa si collocava non in una situazione di inferiorità da un punto di vista territoriale (papa prigioniero in Vaticano!!!), ma iniziava a valutare in modo diverso la realtà sociale a partire dagli ultimi, denunciando soprusi, ineguaglianze e ingiustizie, senza prestare il fianco al socialismo che aveva strutturato la sua lotta sociale in altro modo. Ma vedremo che per qualche cattolico di frontiera il confine era labile.
Nel 1874 prende vita l'Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici che caratterizzerà la stagione contrassegnata dal non expedit, ossia dal divieto rivolto dalla gerarchia ecclesiastica ai fedeli italiani di partecipare alle elezioni politiche per non avallare i "fatti compiuti", in un certo senso tutto ciò che essa aveva subito.
L'Opera dei Congressi manterrà il suo carattere fino all'ultimo decennio del secolo XIX. L'organismo sembrerà spingersi a favorire la linea democratica sostenuta da alcuni giovani diretti da don Romolo Murri (1870-1944), fra l'altro sospetto di modernismo. Lo scontro all'interno dell'organismo più rappresentativo del movimento cattolico italiano tra progressisti e conservatori, culminerà con la soppressione dello stesso voluta da Papa Pio X (1903-1914) nel 1905, e con il rilancio del movimento cattolico attraverso la pubblicazione dell'enciclica Il fermo proposito nell'anno successivo. Il Papa coglie il pericolo modernista nella Chiesa ed è favorevole a un intervento sociale dei cattolici, anche in forma elettorale (probabilmente una necessità per la Chiesa) – attenuando così la posizione intransigente del non expedit -, per fermare l'avanzata del movimento socialista, costituitosi in partito nel 1892. Ma l’impegno elettorale dei cattolici dovrà essere rivolto alla difesa della Chiesa.
Alcuni cenni all’enciclica
Come dicevamo, l’enciclica Rerum Novarum diventa la barra che indirizzerà tutto il cattolicesimo sociale del tempo e che influenzerà anche quello successivo. Creò un fermento autentico, che portava all’impegno sociale di molti laici cattolici che riscoprivano una Chiesa maggiormente attenta alle cose del mondo e anche di molti uomini di Chiesa che avevano a cuore il grande numero di diseredati sottomessi ad un giogo pesante e non infrequentemente disumano.
Leone XIII riflette sul contesto storico che sta vivendo la società italiana ed europea fatto di grandi cambiamenti in campo sociale, economico e politico. Mette in evidenza il contrasto tra “padrone e operai” sottolineando il ruolo di forza nel quale si trovano i proprietari rispetto ai “proletari”. Non solo, ma il papa mette in evidenza anche l’inaccettabilità della soluzione socialista che propone l’abolizione della proprietà privata, pur essendo un diritto naturale e mette contro proprietari e operai non risolvendo i problemi ma, anzi, accrescendo la possibilità di disordini sociali. Il papa parla della necessità del dialogo sociale, della concordia sociale perché le parti (padroni e operai) hanno bisogno l’una dell’altra e devono passare dallo scontro al dialogo.
Le relazioni tra le classi sociali dovranno basarsi, scrive ancora il papa, sulla
. Giustizia nel senso di doveri da assolvere da entrambe le parti
. Carità nel senso di essere sempre rivolti ai beni eterni e all’aiuto dei miseri
L’enciclica parla di Bene comune, di Giustizia distributiva che diventeranno i fondamenti della ricerca della giustizia e della libertà, con maggior riguardo nei confronti dei deboli, dei poveri e dei proletari. Il concetto di Bene comune diventerà il leit motiv della Dottrina Sociale della Chiesa e che oggi troviamo consolidato anche nel linguaggio comune.
Si parla della difesa della proprietà privata che deve essere garantita dallo Stato; e ancora del riposo festivo del quale molto anche oggi si discute.
Lo stato deve intervenire solo quando, afferma il papa, manca il consenso delle parti nello stabilire il salario (si può parlare di una forma di sussidiarietà; pensiamo ai contratti nazionali di lavoro). Egli parla anche di sciopero come grave disordine, ma non si nega la possibilità di metterlo in atto. Il papa ritiene importante prevenirlo.
Parla dell’importanza delle associazioni; di tutela previdenziale, sanitaria e infortunistica per gli operai.
In sostanza, la Rerum Novarum crea le premesse per un movimento cattolico sociale che ebbe Sebastiano Schiavon tra i suoi grandi protagonisti nelle zone di Padova e provincia prima, e successivamente anche a livello nazionale quando fu eletto per la prima volta al Parlamento nel 1913. La sua elezione avvenne nelle liste dei “cattolici-deputati” in contrapposizione ai “deputati cattolici” per sottolineare chi ha il compito di rappresentare il mondo cattolico ed è indicato ufficialmente dalla Chiesa e chi, invece, è cattolico ma eletto in altre liste.

L’impegno dei cattolici

La Dottrina Sociale della Chiesa, quindi, aveva gettato ormai delle solide fondamenta e coloro, tra i cattolici, che cominciarono a costruire un rapporto sociale nuovo, un rapporto fondato sui valori che venivano riscoperti nella operosità in difesa dei poveri, non mancavano. La nascita delle leghe Bianche, dei cattolici democratici aperti alle idee socialiste (Romolo Murri), la nascita del partito popolare con don Sturzo, l’inizio delle Settimane Sociali dei cattolici con Giuseppe Toniolo, furono un continuum nella crescita della sempre presente consapevolezza dell’importanza del pensiero sociale cristiano, dei valori che ne erano e ne sono il fondamento.
Ma erano gli uomini di Chiesa stessi che stavano al fianco dei laici nella riflessione e spesso anche appoggiando direttamente o indirettamente la loro attività politico-sociale in difesa dei deboli. Essi sostenevano la nascita delle aggregazioni laicali, incaricando laici, come Sebastiano Schiavon, a diventarne funzionari.
Certo i dissapori non mancavano. Pensiamo a don Romolo Murri che si affiancò all’opera dei Congressi e al movimento sociale dei cattolici come la “democrazia cristiana” (non del senso del partito): sicuramente un sacerdote molto attivo, ma che trova terreno difficile tra la gerarchia. Infatti dopo la soppressione dell’Opera dei congressi da parte di Pio X, cerca di portare avanti ancora le posizioni dell’opera stessa fondando la Lega democratica nazionale. Per le sue idee vicine al socialismo, venne sospeso a divinis e dopo esser stato eletto al Parlamento con il sostegno dei socialisti e dei radicali, fu scomunicato.
Pensiamo, per esempio, a Giuseppe Toniolo, economista straordinario, cattolico, che seppe cogliere l’importanza della Dottrina Sociale della Chiesa. Cercava una forma di conciliazione tra un socialismo intransigente e un capitalismo libero da ogni responsabilità sociale e da ogni forma morale: una sorta di terza via. In ciò riteneva che il cattolicesimo sociale potesse inserirsi collocando la sua base tra i contadini, tra le popolazioni spesso analfabete sfruttate dai capitalisti e aizzate dai socialisti. Nel 1907 Toniolo iniziò a Pisa e Pistoia la stagione delle Settimane Sociali dei Cattolici, di grande importanza ancora oggi, e delle quali quest’ anno si celebreranno i 100 anni nelle medesime città.
Pensiamo ancora a don Luigi Sturzo che, non solo volle stare dalla parte dei poveri, ma arrivare ad un impegno attivo e diretto in politica sostenendone la valenza e l’importanza senza, per altro, voler mischiare politica e religione. Infatti, nel fondare il Partito Popolare disse: “E’ superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici: il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito politico, è divisione”.
Da questi personaggi straordinari e dagli avvenimenti del tempo, si capisce il fervore degli uomini cattolici che si impegnarono per migliorare la società, creare uguaglianza, risolvere le ingiustizie sociali a favore, possiamo dire oggi, in funzione del bene comune per il riconoscimento della dignità della persona.

L’impegno del cattolico politico Sebastiano Schiavon

Ed è in questo clima che si nota la spinta di Sebastiano Schiavon. Un uomo senza potere e senza ricchezza che coglie il significato profondo dell’impegno del cattolico nella realtà sociale e politica. La fecondità che aveva ricevuto dalla Dottrina Sociale della Chiesa, in sostanza dall’ Enciclica Rerum Novarum, come si accennava in precedenza, lo porta a spendersi senza riserve contro le ingiustizie. I deboli, i proletari, sono i soggetti a cui egli si rivolge: sarà dalla loro parte cercando di trovare la soluzione dei problemi che la realtà del tempo presentava a partire da ciò che da sempre lo animava e lo rendeva consapevole della sua posizione, del suo impegno e della sua identità : l’essere laico cattolico.
Pur riconoscendo l’importanza e il valore delle posizioni dei socialisti, non ne condivideva i metodi di lotta e gli obiettivi della lotta. Egli, per quanto possibile, cercava il dialogo tra le parti (…L’una ha bisogno assoluto dell’altra…R.N. 15), utilizzando tutti gli strumenti che erano in suo possesso per evitare i disordini, ritrovare la conciliazione, e raggiungere una giusta soluzione pur sapendo quale era l’anello debole della catena economica, sociale e politica del tempo. Troviamo nella R.N. 13, che la Chiesa “brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai” . Ma la sua parte privilegiata era sempre quella debole.
Non a caso il suo impegno politico verrà sostenuto con forza dal vescovo Pellizzo che riconosceva in Schiavon l’esempio del laico cattolico che si spende per trasformare le situazioni di ingiustizia alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa. Schiavon non si limiterà ad agire solo direttamente, ma cercherà anche, nel nome di una vera “democrazia cristiana”, di formare altri laici cattolici capaci e disponibili ad operare fianco a fianco dei diseredati e degli oppressi. Per questo riterrà opportuno istituire un percorso di formazione attraverso l’inaugurazione della Scuola di Studi sociali. Una “democrazia cristiana”, quindi, sinonimo di libertà ma anche, per Schiavon, sinonimo di giustizia.
Una democrazia che non può prescindere dal bene comune è ciò che Schiavon cerca; questo lo farà attraverso l’impegno politico diretto, dai comuni alla Provincia e fino al Parlamento. Egli cercherà di usare gli strumenti più adeguati, nei luoghi del suo impegno, per realizzarlo il bene comune nel senso di creare le condizioni per ridurre le disuguaglianze e poter far sì che i pochi che detengono ricchezza e potere non sfavoriscano e condizionino la vita, la libertà e la sopravvivenza di operai e contadini. La situazione della società descritta al n 1 della R.N è molto chiara anche per Schiavon: …essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà…
Un democrazia, quella cercata dal nostro protagonista, che non può non rivalutare il diritto di cittadinanza. L’impegno di Schiavon di fatti, fa riemergere dall’anonimato e dal silenzio, cittadini che si riscoprono tali e per il suffragio universale e perché c’è qualcuno che li aiuta ad uscire dalla situazione nella quale sempre erano stati relegati. Ancora una volta, l’enciclica di Leone XIII, al n. 27, è chiara: “I proletari né più né meno dei ricchi sono cittadini per diritto naturale…”
Non sempre i rapporti con la Chiesa locale, nonostante fosse sostenuto dal vescovo, furono idilliaci. Infatti, il loro deteriorarsi si ha con la sua elezione in Provincia. Schiavon non fu individuato dalla curia, ma eletto col sostegno della base (questo non era previsto per i candidati cattolici).
Certo Schiavon è un uomo che non si tira indietro e non vuole essere al di fuori della Chiesa; sa che il suo impegno non è solo fatto di contrapposizione ma di costruzione, alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa e di una nuova giustizia per i più deboli.
Dobbiamo anche sottolineare che, successivamente alla Rerum Novarum, fu scritta da Pio X l’enciclica “Pascendi dominici Regis” contro il modernismo che si infiltrava ed era spesso sostenuto, secondo il papa, anche dai fedeli. Schiavon, quindi, dovette infilarsi nelle aperture della Rerum Novarum e cercare di districarsi tra le maglie, talvolta strette, dell’ enciclica di Pio X che chiedeva obbedienza da parte dei laici.
Comunque, nonostante il non expedit, nell’ulteriore enciclica Fermo Proposito con la quale Pio X istituisce l’Azione Cattolica, il papa fa delle aperture sulla possibilità che ci siano dei parlamentari cattolici. Essi potranno candidarsi ma solo per fare il bene della Chiesa. Come sappiamo, il patto Gentiloni del 1913 aprirà la strada, ancora difficile, per l’elezione dei cattolici (il non expedit verrà eliminato da papa Benedetto XV nel 1919). Infatti Sebastiano Schiavon verrà eletto al Parlamento con incarico ufficiale da Roma.
In sostanza Sebastiano Schiavon è un uomo del popolo che raccoglie dalla sua fede la sintesi per un impegno sociale e politico filtrandolo attraverso gli insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa. Il suo essere stato considerato lo “strapazzasiori”, non gli sarà molto di aiuto nel futuro dato che gli stessi “siori” che operavano anch’essi a fianco della Chiesa e della sua dottrina (non so se sociale) cercheranno di ostacolarlo in ogni modo. Il loro obiettivo sia a livello locale che nazionale sarà quello di impedire a Sebastiano Schiavon di continuare la sua attività politica e il suo impegno per le cause in cui aveva creduto e per cui si era sempre battuto.
Poco prima della sua morte cambia il clima politico, all’interno della Chiesa e anche quello nei confronti del politico padovano che non riuscirà, come sappiamo, a presentare la sua lista per il terzo mandato. Schiavon non verrà eletto al Parlamento, non avrà più il sostegno della Chiesa che gli preferirà altri più illustri; anche i contadini lo abbandoneranno; morirà e cadrà nell’oblio.
Egli fu, come laico cattolico, un importante testimone dell’impegno sociale e politico dei primi del ‘900. Forse la provocatoria domanda che molti anni dopo Maritain espresse in maniera cruda: “Il popolo deve essere risvegliato oppure utilizzato? Dev’essere risvegliato come fatto di uomini, o frustato e trascinato come bestiame? trovò in Schiavon un perfetto interprete e una risposta costruttiva. Possiamo anche dire che abbia anticipato di molto, con la sua azione politica e sociale quanto, qualche decennio dopo, disse papa Paolo VI: La politica è uno dei più alti valori della carità.

giovedì 22 novembre 2007

Etica, sviluppo, solidarietà e finanza

Qualche parola introduttiva


Riscoprire il senso dell’economia, dare un’anima a quanto sembra averla persa è il compito dell’indispensabile rielaborazione per affrontare temi quali sviluppo e finanza. Per evitare di creare enfasi intorno ai problemi utili più per offrire una, seppur lodevole, testimonianza di ingiustizia piuttosto che fare da volano alla loro comprensione, si dovrebbe partire da riflessioni che aiutano ad andare oltre il problema in sé, spesso sottolineato con atti di denuncia, e farlo uscire dalle definizioni per slogan e riportarlo sulla via della comprensione e dell’approfondimento. E’ corretto sottolineare che i grandi temi dell’economia e delle sue conseguenze inevitabili, sono straordinariamente vicini e vanno affrontati con la dovuta serenità per evitare chiusure massimaliste sia per quanto riguarda un liberismo a briglie sciolte, al quale non interessano direttamente le conseguenze delle sue azioni, sia per quanto riguardo il desiderio da parte di gruppi e di singoli di inchiodare a regole troppo rigide la libertà di intraprendere. Creare sviluppo, dare senso ad un sistema economico, offrire opportunità, non possono prescindere dalla valorizzazione della ricchezza ed esaurirsi nell’accumulo di denaro o di beni.
I nostri comportamenti sono spesso caratterizzati dal fattore economico: domande come quanto costa, a cosa mi serve, sono causa di un’operazione economica di cui noi, spesso inconsapevolmente, ci rendiamo protagonisti. Tutti svolgiamo delle operazioni economiche che si fondano sul rapporto qualità- prezzo o costo-beneficio. Veniamo avvolti, coinvolti e talvolta stritolati dal sistema economico che ci circonda; crea ricchezze enormi ed enormi miserie; garantisce benefici e privilegi ai pochi dentro il sistema, ma danneggia in modo talvolta irreversibile, coloro che sono lontani o ai margini del sistema.

Per accostarci all’economia

Il nostro sistema sociale ed economico cambia rapidamente in una sorta di meccanismo ben oliato dal quale non ci si può chiamare fuori. Gli eventi si rincorrono e l’economia li domina cercando di trarne il massimo beneficio richiedendo rigore nell’applicazione delle norme di mercato, dinamicità nel percepire i cambiamenti, equilibrio nel valutare i costi e i benefici, attenzione alla competizione per evitare scossoni che potrebbero generare situazioni drammatiche. Ma si continua a ricercare valori da anteporre alle forzature del gioco economico per non enfatizzarlo, dandogli la giusta spinta e guidandolo verso il suo fine che è pienamente umano e non può che essere incarnato nella persona in tutta la sua dignità e ad ogni latitudine.
L’economia, come sappiamo, si costituisce su uno spirito libero, di intraprendenza e abilità personali; non ama le regole esogene che sono, per definizione, una riduzione della libertà in termini assoluti la quale, dell’economia di mercato, ne è il fondamento. Il principale strumento che l’uomo conosce per la realizzazione degli obiettivi che l’economia si pone, è il mercato. Esso ha una storia lontana che risale ai francescani i quali ripetevano che “l’elemosina aiuta a sopravvivere ma non a vivere. Perché vivere significa produrre e l’elemosina non aiuta a produrre”. Esso si caratterizza per la massimizzazione del profitto frutto dell’interesse personale e dell’egoismo che sono complementari; è il motore trainante di tutto il sistema assieme alla competizione. Quest’ultima è lo strumento che spinge continuamente il sistema a migliorarsi, a ricrearsi, rigenerarsi e riprogettarsi. E’ il gioco del mercato che, ormai, saltato ogni confine materiale e vivendo spesso in un mondo virtuale, è diventato una grande piazza nella quale gli individui scambiano beni sia reali che immateriali e dove si creano grandi opportunità, ma anche enormi disuguaglianze.
La grande piazza del mercato si riempie anche di relazioni che si costituiscono come beni con valore aggiunto a quelli del mercato ma non hanno valore economico; esse creano “ricchezza” non misurabile con i comuni misuratori di ricchezza. Questi “beni relazionali” aggiungono valore allo scambio, anzi, diventano uno dei fondamento dello scambio stesso. Sappiamo, per esempio, che esiste un mercato che può scambiare senza profitto beni relazionali perché si trova a dover operare, non per la massimizzazione del profitto, bensì per la massimizzazione della qualità della vita di persone alle quali il mercato tradizionale non ha lasciato spazio per recuperare dignità.
Diciamo, dunque, come afferma Zamagni, che esiste una “pluralità di mercati” capaci di creare ricchezza ma soprattutto quella sensazione di felicità o di benessere che è vitale per chi si trova a non essere “produttivo” secondo le richieste della stretta economia di mercato, ma essere in grado, attraverso le sue abilità, di produrre in modo particolare beni scambiabili e a costruire un sistema di relazioni utili alla realizzazione di sé come persona. E ciò non è solamente un complemento di mercato, ma una realtà di fatto che non può essere dimenticata, ma applicata, seppur con formule diverse, al mercato tradizionale. Il quale mercato sarà sempre più efficace ed efficiente se arriverà alla riconsiderazione delle relazione umane come una reale e significativa aggiunta di valore. Pertanto, come scrive il documento della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) Etica, sviluppo e finanza, la necessità primaria ora è di “allargare lo spettro degli obiettivi” allontanandosi dalla sola prospettiva economicocentrica verso un’economia che guardi allo sviluppo integrale della persona. In sostanza, porre attenzione e dedicare energie per costruire “un’economia al servizio della persona”.
Quindi si deve parlare di “vita economica”, piuttosto che di economia tout court perché, riprendendo ancora Zamagni alla recente Settimana Sociale dei Cattolici, essa genera valore che si orienta verso orizzonti non imbrigliati nell’esclusiva massimizzazione del profitto. Quindi una sorta di bio-economia da coniugare con la formula per guardare alla persona e al suo sviluppo integrale. Ed è nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa che troviamo la sottolineatura, chiara e determinata, che riconosce il valore della persona in dignità; la realizzazione è nella sua integralità e non in un esclusivo accumulo di beni: “Oggetto dell’economia è la formazione della ricchezza e il suo incremento progressivo, in termini non soltanto quantitativi, ma qualitativi: tutto ciò è moralmente corretto se finalizzato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società in cui egli vive e opera” (CdsC n. 334)

Tra etica ed economia

a. Una sintesi inutile e dannosa.

Nel sistema economico attuale sembra proprio che la sintesi tra etica ed economia sia impossibile. Alcuni autori contemporanei che appartengono al pensiero delle scuole neo-liberiste di Chicago e Vienna, affermano che la sintesi tra l’etica e l’economia non è possibile perché l’economia e il mercato, nel caso riconoscessero al loro interno degli errori, sarebbero in grado di gestirli e risolverli da soli. Non c’è quindi necessità di regole che guidino l’economia dall’esterno. Ogni regola esterna al mercato andrebbe a violare, come abbiamo visto, la libertà di mercato e dei suoi operatori. Di conseguenza l’etica funzionale all’economia è guardata non solo con sospetto, ma con il rifiuto di chi sostiene la sua inutilità e, talvolta, la sua dannosità. Tutto è guidato da un ordine naturale e nessuno può intromettersi in ciò che è così per sua natura. Ovviamente, in questo sistema fatto di interesse personale e di fiducia tra gli operatori, ha poca parte in causa anche lo Stato che non può vantare diritti normativi su ciò che è assolutamente libero. Dev’essere uno Stato “minimale”.

b. Una sintesi necessaria e utile.

C’è chi invece, non vede antagonismo tra etica ed economia, anzi ritiene che la loro complementarità sia necessaria all’economia e non sia un motivo di recessione, ossia la premessa per favorire il sottosviluppo. Il punto fondamentale è riprendere a riflettere sui bisogni degli individui e non solo sulla soddisfazione immediata dei desideri, recuperando quei valori in grado di far sì che l’economia non sia invasiva di qualsiasi ambito della vita umana. Infatti, afferma Zamagni, è da ribadire che “l’effetto più deleterio della dottrina self-interest, tipica del sistema di mercato avulso dall’etica,è stato quello di farci credere che un comportamento che si ispiri al valori diversi da quello dell’interesse personale conduca al disastro economico. Il che non è”.

I deboli nel mercato

Quando si vuole affrontare il problema dello sviluppo non si può non ricorrere anche ai concetti di “sotto-sviluppo” o di “in via di sviluppo”. Spesso questi due concetti vengono usati in modo erroneo come sinonimi. Addirittura c’è qualcuno che parla di “paesi poco sviluppati”. A questo punto bisognerà mettersi d’accordo sul significato di sviluppo. Leggiamo nel dizionario il termine sviluppare dal quale deriva sviluppo: Aumentare, far crescere e progredire con una minore o maggiore regolarità e gradualità. In particolare in riferimento alle attività economiche e intellettuali. E’ chiaro che anche la definizione del dizionario è alquanto insufficiente perché non entrare nel merito, ma quando ci riferisce agli altri concetti che definiscono la situazione opposta, e cioè quella di sottosviluppo, è evidente che esiste una mancanza di tutto ciò che potrebbe contribuire allo sviluppo: una riduzione della crescita in riferimento sia alle attività economiche che intellettuali. Dobbiamo anche sottolineare che le due attività, quella economica e quella intellettuale, sono intimamente connesse perché si possa parlare di sviluppo: dove manca l’istruzione non ci può essere sviluppo economico e dove non ci sono possibilità economiche mancano anche le possibilità di avere opportunità di crescita intellettuale. Ma questa ultima, se sostenuta, può ridurre il percorso per arrivare ad uno sviluppo progressivo e pienamente umano senza che questo sia catalizzato solo dall’economia e dal mercato.
Possiamo a questo punto sottolineare che non può esistere un unico modello di sviluppo. Pretendere o avventurasi attorno ad un pensiero unico di sviluppo può essere fuorviante e disastroso. Si potrebbe passare dal danno alla beffa se non si tiene conto dei diversi sistemi di vita e delle condizioni oltre che delle tradizioni dei paesi sotto-sviluppati. In effetti: che cosa vuol dire svilupparsi ed essere felici per chi abita in India, piuttosto che in Francia o Congo? Le risposte potrebbero molteplici sempre in fieri e mai definitive per i continui cambiamenti che, in nome della globalizzazione, in ogni luogo del pianeta si susseguono a ritmi spaventosi.
E’ certo, e siamo sicuri di non essere smentiti, che il progresso delle società occidentali ha avuto un ruolo fondamentale nel creare condizioni di vita migliori per un numero sempre maggiore di persone. Pensiamo solo alla possibilità di curarsi che molti prima non avevano e ora hanno; l’accesso all’acqua potabile (anche se qui si aprirebbero un capitolo molto interessante). Ovviamente molto rimane ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda la gestione della stessa economia o delle economie che non sono in grado di salire sul treno di un sistema che è diventato libero, ma allo stesso tempo protezionista nel senso che cerca di offrire opportunità ma a certe condizioni, non infrequentemente lontane dal riconoscimento della dignità della persona. E qui non si vuole colpevolizzare nessuno, ma certamente non negare che, negli anni, molti hanno speculato giocando sui termini sviluppo-sottosviluppo salvaguardando un tornaconto politico-economico e mai affrontando il vero nodo del problema e cioè la riconsiderazione dei parametri di sviluppo e di “crescita”. Gli standard di produzione, reddito e i consumi non possono evidentemente essere utilizzati allo stesso modo in paesi dove questi, rapportati alla miseria, diventano veramente paradossali. Di fronte l’incapacità di governi deboli politicamente, sostenuti da politiche deboli, con economie deboli che sono stati resi tali da politiche di controllo economico e politico da parte dei paesi sviluppati a partire dalla decolonizzazione degli anni ’60, si deve investire per soddisfare i bisogni primari e non solo. La filantropia pietista ha senso solo per la soluzione del problema limitato che vuole contribuire a risolvere. Lascia il tempo che trova, però, per aprire spazi nuovi, di collaborazione socio-economica e politica al fine di trovare formule per democratizzare (senza imporre!) questi paesi lavorando per il futuro e per la crescita della dignità della persona, della salvaguardia dell’ambiente nella quale vive, della coesione sociale, della crescita del grado di istruzione.
Pensiamo, per esempio, ad una questione drammatica, dimenticata, ma sempre presente: il debito estero dei paesi poveri. Un fardello che mette alla corda anche i più ottimisti sulla possibilità che i paesi indebitati abbiano la possibilità di uscire dalla precarietà, dalla miseria e dal sottosviluppo. Un peso che le giovani economie e i giovani governi hanno accumulato negli anni non avendo avuto la possibilità di restituirlo e spesso, non avendo investito le ingenti somme ricevute per la crescita dei loro paesi perseverando in uno lo sviluppo sociale , economico, culturale, sanitario precario o addirittura insignificante. I fondi elargiti dal FMI, dalla Banca Mondiale o dalle nazioni più ricche, sono finiti nell’acquisto di armi utili alla difesa del potere conquistato spesso con sanguinosi colpi di stato o guerre civili. Forse sarebbe opportuno ricominciare a parlarne. E’ molto probabilmente una delle cause maggiori del sottosviluppo determinate dall’approssimazione nell’elargire prestiti da parte degli organismi internazionali a capi di governo che di democratico non avevano nemmeno il nome. Spesso i prestiti venivano rifinanziati col risultato di spostare più là i termini di pagamento con l’unico risultato di prolungare l’agonia. La comunità si è impegnata ad eliminare i debiti dei Paesi più poveri perché questi debiti erano diventati inesigibili e perché riteneva che questo fosse un modo per creare le premesse positive allo sviluppo di questi paesi. . Chiaro che non è una cancellazione senza condizioni. Gli stati che sono stati ritenuti beneficiari della cancellazione, dovranno impegnarsi ad utilizzare il denaro non versato per investimenti in infrastrutture a favore della propria popolazione. Qualcosa è stato fatto soprattutto dopo le grandi campagne del 2000 portate avanti dalla Chiesa e da altre organizzazioni umanitarie. La strada, però, è ancora molto lunga.

Quali scenari

Di fronte alle difficoltà dei paesi poveri di trovare la loro dimensione di sviluppo, aiutati da una catena di solidarietà, lodevole ma non sempre efficace, si ha l’obbligo di partire dal riconoscimento delle energie che questi paesi hanno da sprigionare per contribuire tirarli fuori da situazioni patologiche. Non possono essere continuamente viste solo come emergenze e trattate come tali; il sistema di politica economica internazionale, ormai, non può più stare a guardare.
In caso contrario dovremo affrontare in modo ancora più massiccio il movimento migratorio dai paesi poveri ai paesi ricchi con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: dalle crisi sociali, alla criminalità, alla xenofobia, al razzismo. Ed è un movimento inarrestabile, impossibile da arginare per un motivo semplice: la globalizzazione delle merci ha avuto come conseguenza la globalizzazione degli uomini, che in modo relativamente rapido possono spostarsi da un punto all’altro del pianeta pur di raggiungere quei paesi dove pensano comunque di trovare condizioni di vita che nei paesi d’origine non hanno.
Ma l’immigrazione non è la sola situazione che i paesi sviluppati dovranno affrontare perché il mercato è esigente e la velocità dei cambiamenti è talmente rapida che si possono creare delle falle nel sistema con conseguenze drammatiche. Pensiamo a come l’ambiente venga monitorato e riconosciuto come essenziale per la sopravvivenza dell’umanità e fondamentale per lo sviluppo. Le situazioni che ci vengono presentate non confortano, anzi; l’allarme che quotidianamente viene dato dagli esperti non ci può lasciare tranquilli: inquinamento, deforestazione, difficoltà di approvigionamento dell’acqua dolce, inquinamento industriale, aumento esponenziale della popolazione mondiale, soprattutto nei paesi poveri, ecc.. E’ doverosa, pertanto, una maggiore attenzione allo sviluppo, all’acquisizione di un ben-essere secondo criteri di sostenibilità ambientale, sociale, economica,. Tutto ciò a vantaggio della persona perché essa possa realizzarsi nella sua pienezza, nella sua originaria e originale identità, in uno spirito di solidarietà; uno sviluppo integrale della persona in tutta la sua umanità. E’ una grande responsabilità dei paesi ricchi perché “uno dei compiti fondamentali degli attori dell’economia internazionale è il raggiungimento di uno sviluppo integrale e solidale della persona” (CdSC n. 373). Eliminare o ridurre le disuguaglianze sono una priorità non più rinviabile se si hanno a cuore le sorti della parte più debole dell’umanità.
E’ una sfida che non può più attendere per evitare conseguenze delle quali dovranno occuparsi altri dopo di noi. Le politiche del benessere che guardano agli esseri umani come beneficiari e non come protagonisti del cambiamento nel processo di sviluppo non possono più albergare in una realtà che deve rendere le persone autrici del proprio sviluppo e della propria esistenza. L’approccio che mira a soddisfare i bisogni essenziali è generalmente centrato sulla preoccupazione di fornire beni e servizi materiali a gruppi svantaggiati piuttosto che sul tentativo di allargare le possibilità umane offrendo opportunità, conoscenze, competenze sempre tenendo presente le capacità che ognuno possiede e può mettere a disposizione.
Pertanto lo sviluppo dovrà essere pluridimensionale nel senso di una costante attenzione alle condizioni possibili di cambiamento e di risollevazione dalle realtà di marginalità e miseria dei paesi dalle scarse opportunità. Comunque, come dice A.Sen, bisogna sempre tenere presente la differenza tra il ricco che digiuna e il povero che muore di fame: hanno sostanziali diversità nelle possibilità di scelta. E se una persona non solo non sa cosa scegliere ma nemmeno le viene garantita la possibilità di scelta, viene a mancare il fondamento dello sviluppo che è la libertà. Aprire nuove prospettive per il futuro è cogliere l’occasione che è sempre di costruire pari opportunità iniziali che ognuno dovrebbe avere per poter scegliere
Dobbiamo anche sottolineare, tra l’altro, che i poveri diventano l’oggetto privilegiato della filantropia dei ricchi i quali, paradossalmente, ne hanno bisogno per tranquillizzare la propria coscienza. Sono gesti che hanno una forte valenza umanitaria, che non vanno giudicati, ma le perplessità sugli obiettivi rimangono. Ralf Dahrendorf, ironicamente diceva che “i ricchi possono diventare più ricchi senza di loro (poveri); i governi possono essere rieletti anche senza i loro voti” (Quadrare il Cerchio, ed Laterza, p. 42).


Il ruolo della solidarietà

Vorrei partire dalla definizione di solidarietà data da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei Socialis perché mi sembra la più adatta a capire anche il senso della responsabilità di ognuno. Il papa scrive che la solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tanti persone vicine e lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti sono responsabili di tutti (SRS, n. 38). Come si può leggere, la solidarietà non può essere solo pietas, ma l’utilizzo di mezzi efficaci per far uscire uomini e nazioni dalla condizione di sottosviluppo. Questo è un problema economico e politico, di scelte strategiche e di strumenti adeguati. Si tratta di politica economica e di politica finanziaria; si tratta di costruire percorsi per far sentire uguali i diseguali fondato su principi di reciprocità; non solo diritti e doveri ma opportunità di accesso al mercato o ai mercati.
E’ da riconoscere in ciò un processo convincente perché responsabilizza chi la fa la solidarietà, la genera, e chi è il fine della solidarietà.. Questo non per un senso del dovere da parte di chi vive nella miseria avendo davanti a sé poche luci e molte ombre, ma perché la responsabilizzazione è il metodo migliore per conseguire livelli accettabili di equità; per elevare, chi vive dipendendo da altri, ad un livello superiore di dignità, quello di essere indipendente dalla rete solidaristica raggiungendo, autonomamente, condizioni di vita migliori e riducendo gli effetti di una disuguaglianza sempre più marcata. Queste condizioni di vita migliori, frutto certamente anche della solidarietà, possono creare situazioni virtuose per aiutare molti altri ad uscire dalla miseria e, forse, anche dalla solitudine.
E’ la solidarietà che crea valore nella reciprocità. Porta al riconoscimento dell’altro quale soggetto intraprendente e capace di autonomia; non è più solo oggetto della mia pietà emotiva costruita, magari, attorno ad un evento tragico o, forse, per assopire quel senso di colpa che è in noi. In sostanza, solidarietà e responsabilità sono interdipendenti perché possono mettere in moto atteggiamenti nuovi destinati, un giorno, a migliorare le condizioni di vita di numerose popolazioni; un viatico straordinario per lo sviluppo, capace di recuperare ricchezza, ma soprattutto dignità.
Ciò non significa che la solidarietà come atteggiamento libero, svincolato da qualsiasi interesse personale e finalizzato esclusivamente al bene dell’altro, tradotto semplicemente nell’evangelico amore verso il prossimo, debba essere abbandonata. Anzi! Ci sono situazioni drammatiche che necessitano di interventi immediati. Ma il passaggio non può attendere perché la solidarietà non ristagni, diventi sistema consolidato e ingenti somme di denaro vengano utilizzate senza creare sviluppo. Perché, se la solidarietà è una delle condizioni per la convivenza tra i popoli e le persone, si deve riconoscere anche pari dignità tra gli stessi. Gli uomini devono avere la “libertà di conseguire” (A.Sen, La ricchezza della ragione) e di essere padroni del loro destino confrontandosi e operando pariteticamente e non in spirito di soggezione.
In tutto ciò, a mio parere, sta il senso della “lotta alla povertà” di cui tanto si parla e per cui si stanziano fondi, si impegnano energie e risorse. Ma ciò che deve cambiare radicalmente è la “relazione donatore-beneficiario” (Documento CEI, Etica, sviluppo e finanza) attraverso nuovi equilibri e una maggiore partecipazione attiva dei paesi poveri anche nelle decisioni a grandi livelli perché anche questo può aiutare ad uscire dalla marginalità.

Quali strumenti


Quando si parla di strumenti che condizionano positivamente o negativamente il mercato o i mercati, dobbiamo pensare al sistema finanziario: movimento virtuale di denaro che rapidamente corre attraverso vie digitali utilizzando metodi speculativi per la massimizzazione del profitto. Non possiamo dimenticare come la finanza, diciamo quella cattiva, abbia creato danni economici ingenti e non solo a persone ignare che magari, fidandosi, avevano investito i loro pochi risparmi in titoli dimostratisi appartenenti a scatole vuote. Pensiamo a Parmalat, Cirio o a tutti i nuovi finanzieri emergenti finiti, alcuni di loro in galera e i loro investimenti in una bolla di sapone. Si può sottolineare, che la finanza è uno straordinario strumento di inclusione ma allo stesso tempo, di esclusione: da una parte chi pensa di investire i propri pochi risparmi per poter avere delle rendite, dall’altra coloro che, purtroppo ignari dell’evolversi negativo di certe situazioni, si trovano a dover fare i conti con chi ha lucrato in maniera disonesta, magari vestendo la maschera dell’onestà.
Necessita una finanza maggiormente responsabile, capace di offrire ai cittadini delle opportunità di investimento garantite e rispettose, che sappiano coniugare efficienza e solidarietà, profitto e trasparenza, sostenibilità e chiarezza nelle informazioni, comportamenti etici per il rispetto dell’ambiente e della dignità dell’uomo. Ma a tutto ciò va aggiunto anche una forte sensibilizzazione di imprese e cittadini investitori perché riconoscano che il loro denaro investito in titoli o fondi, può essere uno strumento eccezionale anche per risollevare dall’indigenza e dalla povertà un grande numero di persone. Quindi si parla di un’educazione per i risparmiatori perché siano stimolati ad esigere chiarezza sulle finalità e sugli investimenti dei gestori dei fondi stessi. E’ un’importante assunzione di responsabilità anche dei gestori; dovranno, di fronte all’incalzare continuo di investitori sempre più esigenti e che chiedono giustamente un rendimento adeguato, ma anche, ed è questa la novità, una gestione etica del loro risparmio, ripensare il modo stesso di fare finanza. Gli investitori , in base alla loro sensibilità e alle loro motivazioni valoriali, cominciano a scegliere dove investire il proprio denaro. Non è più la sola rendita l’unica misura del possibile guadagno, bensì anche una serie di criteri etico-valoriali che le si affiancano e che, non infrequentemente, passano al primo posto nella scelta delle priorità di investimento. Le scelte cominciano spesso a cadere su aziende che operano nel campo del rispetto dell’ambiente, della cooperazione e dello sviluppo internazionale; quelle, per esempio, che operano nella finanza etica scartando quelle che operano al di fuori della sostenibilità sociale.
Ma c’è anche chi dalla finanza é inesorabilmente escluso. Non vi partecipa perché non ha i mezzi e gli strumenti per parteciparvi e, probabilmente, non è nemmeno consapevole della sua situazione di esclusione anche se potrebbe averne necessità per iniziare un percorso positivo, di inclusione nel sistema sociale economico. Diciamo pure che la grande finanza non ha interesse per questa fascia di popolazione mondiale nonostante possa annoverare nel proprio portafoglio fondi di investimento che vanno a finanziare, per pura operazione di marketing, opere meritorie nei paesi poveri.
La riflessione che si dovrebbe fare è quella di riuscire a coniugare sviluppo e giustizia sociale ed economica, utilizzando negli investimenti dei criteri che pongano attenzione principalmente alla dignità dell’uomo alla sostenibilità sociale e ambientale. Credo che alcuni esempi si possano fare senza per questo ritenere che siano gli unici ad utilizzare criteri etici nella corresponsione di aperture di credito e nell’investimento dei capitali raccolti. Pensiamo, per esempio, alla Grameen Bank fondata Mohammed Yunus, premio nobel per la pace 2006. Con pochi strumenti e anche con poco denaro, sono riusciti a mettere in moto un meccanismo virtuoso di credito, anzi, di microcredito, che ormai coinvolge una moltitudine di famiglie non solo in Bangladesh, nazione tra le più povere del mondo, dove la banca ha avuto origine. Il microcredito finanzia coloro che non possono dare garanzia alla banca, cioè i cosiddetti “soggetti non bancabili”, ma che hanno un progetto operativo significativo per mezzo del quale possono ottenere risultati importanti sia come profitto per un tenore di vita dignitoso, sia di sostegno e di rispetto ambientale. Nel microcredito c’è la ferma convinzione che lo sviluppo passa attraverso una forma legale di crediti bancari, seppur minimi, ma con grande valore per gli esclusi dalla normali operazioni di credito. Questo sistema, ha raggiunto più di 67 milioni di persone che possono ancora sperare in una vita diversa, migliore.
In sostanza, dice Muhammad Yunus: “Tutti gli esseri umani, senza eccezioni, hanno capacità imprenditoriali. Fa parte della nostra natura. Il fatto che tali capacità siano riconosciute ad alcune persone e ad altre no dipende solo dalla società in cui viviamo. Ad alcuni, non è stata offerta l’occasione di manifestare quelle capacità ma esse esistono” (Repubblica, 15.11.2007).
Esistono anche altri strumenti che operano per la crescita e lo sviluppo: dalla Banca Etica, alla Cooperazione internazionale, al Commercio Equo e solidale; dalle ONG di vario genere alla grandi organizzazioni che fanno capo all’ONU, che qui, però, non abbiamo il tempo di trattare.

Una parola conclusiva

Ci sono ancora speranze? Se ascoltassimo Woody Allen: Il denaro non fa la felicità, figuriamoci la miseria, difficilmente potremmo avere ancora il coraggio di credere che qualcosa potrà cambiare. Ma la sensibilità delle persone, l’informazione, i valori condivisi e la riconsiderazione in chiave di responsabilità, cominciano a fra muovere dei passi importanti. Certo che la finanza etica, di qualsiasi origine, è non molta cosa dei movimenti mondiali e considerata per pochi iniziati. Probabilmente la battaglia è di uscire dalla nicchia e cercare di far capire che la finanza etica lavora per lo sviluppo, la crescita, il rispetto dell’ambiente e il conseguimento della dignità dell’uomo ed è conveniente per gli operatori. Il guscio ideale protettivo nel quale troppo spesso ci si chiude può avere dei limiti; uscire allo scoperto, saltare l’ostacolo e proporre un nuovo modello di sviluppo sostenuto da un nuovo modello di finanza è possibile.

Che fatica partecipare!

Dò il benevenuto a voi che vi sottoponente al
sacrificio di esserci, di contribuire a questa finestra. Qui dialogo e
approfondimenti troveranno terreno fertile.
Alla fine:


"La laicità, intesa come principio di distinzione tra stato e
religioni, oggi non è solo accettata dai cristiani, ma è
diventata un autentico contributo che essi sanno dare
all'attuale società, soprattutto in questa fase di costruzione
dell'Europa:
non c'è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento
all'istanza di laicità".

Enzo Bianchi "La differenza cristiana" ed.Einaudi


"E' un obbligo eterno fra esseri umani non far soffrire la fame ad alcuno quando si ha la possibilità di dargli assistenza"

Simone Weil

"Salvaguardare i diritti degli altri è il fine più nobile e bello di un essere umano"

Kahlil Gibran